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La disinformazione online e quello che possiamo fare. Quattrociocchi, Pariser, Menczer, Fournier, Quelch, Rietveld

La disinformazione non è nata con internet e tanto meno su Facebook. Gli esempi non mancano. Il caso Boffo è stato costruito sui giornali di carta e da giornalisti che non avevano molte idee sul digitale (Feltri su Repubblica). Il caso Telekom Serbia fu ingigantito dalla televisione posseduta dal capo di un importante partito italiano (Wikipedia). Ma ci sono anche casi più importanti e recenti: se la Brexit è un disastro politico tra le sue cause c’è la disinformazione portata avanti nel tempo dai giornali di carta più popolari in Inghilterra e Galles (questo blog).

Il problema non è dichiarare internet fallita come opportunità per migliorare l’informazione. E non è neppure quello di difenderla. Il problema è capire che cosa succede, comprendere quanto sia importante e decidere di agire: il bello di internet è che si possono progettare soluzioni diverse da quelle che sono state trovate finora. Il brutto è che non è facile e non è ovvio battere la disinformazione, ovunque si sviluppi: il bruttissimo è che molte piattaforme giganti attualmente in uso su internet non sono costruite per occuparsi della qualità dell’informazione.

Che cosa sono le echo-chamber?

In un intervento su WEF, Walter Quattrociocchi spiega molto chiaramente che cosa siano le echo-chamber: «Uno spazio definito sul web nel quale le idee scambiate, essenzialmente, si confermano le une con le altre. Per esempio, può essere uno spazio di persone che hanno la stessa mentalità e che si scambiano idee politiche simili, oppure una pagina su una teoria cospirazionista. Una volta entrati in questi spazi, gli utenti scambiano informazioni molto simili, in pratica facendosi eco l’un l’altro».

Eli Pariser aveva sottolineato nel suo libro The Filter Bubble (2011) come ci sia una relazione tra l’algoritmo fondamentale delle piattaforme più usate su internet in Occidente – da Google a Facebook – e la formazione di echo-chamber. Perché l’algoritmo non fa che restituire pagine che favoriscono argomenti e persone simili a quelle che sono state in passato gradite agli utenti. Quegli algoritmi che servono a “filtrare” l’informazione – in un contesto di eccesso quantitativo di informazione – di fatto formano delle bolle intorno a ciascun utente grazie alle quali egli vede e legge prevalentemente informazioni che somigliano a ciò che ha gradito in passato.

Secondo Filippo Menczer, del Center for Complex Networks and Systems Research (CNetS), la disinformazione online segue la struttura della rete e tende a polarizzare l’aggregazione di informazioni e di persone. Il progetto Truthy aiuta a capire queste dinamiche.

Una volta compreso questo fenomeno, chi voglia fare disinformazione o chi voglia semplicemente attirare traffico sulle proprie pagine può sfruttare il meccanismo. Disinnescarlo diventa molto difficile. Un po’ come ogni lock-in generato dall’effetto-rete.

Le ricerche di Walter Quattrociocchi e del suo gruppo del Laboratory of Computational Social Science all’IMT di Lucca, ne danno una visione fondata sull’analisi del comportamento di milioni di utenti. Le teorie complottiste, per esempio, sono analizzate nel dettaglio e mostrano in pieno la forza dell’echo chamber: Science vs Conspiracy: Collective Narratives in the Age of Misinformation, Echo Chambers on Facebook, Viral Misinformation: The Role of Homophily and Polarization, Collective attention in the age of (mis)informationUsers Polarization on Facebook and Youtube.

Corollari molto significativi della ricerca di Quattrociocchi e della sua squadra:
1. I troll non sono più soltanto in grado di intercettare un po’ di traffico opponendosi a uno specifico argomento o personaggio online, ma possono anche costruire intere pagine che integrano o si oppongono a filiere di temi delle echo chamber, ingigantendo il proprio potere e anche l’effetto degli eventuali contenuti disinformatori che si diffondono nelle echo chamber (o intorno ai quali le echo chamber sono costruite)
2. Il factchecking razionale non è sempre utile per ridurre la disinformazione e spesso non fa che aumentarne la portata: le persone che stanno nelle echo chamber non ammettono il dibattito documentato ma soltanto la contrapposizione di opinioni, ma si occupano attivamente di ciò che mette in discussione le loro idee. Sicché un tentativo di chiarimento documentato su un pezzo disinformatorio può diventare paradossalmente motivo per rilanciare ancora la disinformazione.

Perché la disinformazione è importante?

Uno potrebbe dire che la domanda è ovvia. Ma a questo punto non lo è più. In teoria, in una democrazia si decide tutti insieme seguendo le regole costituzionali in modo tale da arrivare a scelte basate sulla maggioranza e rispettose delle minoranze: sicché in quella teorica democrazia alla fine si fa il bene di tutti. Il problema è che si può dibattere, deliberare e decidere soltanto in base a ciò che si sa su come stanno le cose. E se l’informazione che circola è totalmente sballata le decisioni saranno altrettanto sballate. Questo è un fatto.

La logica della disinformazione e il dibattito in tecnica troll sono diventati normali nelle democrazie – non teoriche ma pratiche – nelle quali vivono in gran parte gli occidentali. La dinamica è partita forse con i giornali di parte, si è ingigantita all’epoca della televisione, non si è ridotta ma è addirittura diventata capillare con le piattaforme sociali internettiane. Gli ambienti mediatici riflettevano e davano forma a dinamiche sociali molto precise, collegate alla destrutturazione delle gerarchie sociali tradizionali e all’emergere di società molto meno organizzate, sulla scorta probabilmente dell’ideologia iper-finanziaria che abbatteva le aggregazioni sociali tradizionali e tra l’altro favoriva il consumismo-pubblicitario e i media che lo servivano. In quel contesto, l’importante non era che circolasse un’informazione giusta, ma che circolasse l’informazione che faceva vendere di più o che convinceva meglio la gente intorno alle idee che politicamente dovevano passare al servizio del potere finanziario.

La disinformazione è parte integrante della crisi della democrazia. Fare qualcosa è obbligatorio per salvare la democrazia. La disinformazione è parte integrante della tendenza all’accettazione dell’autoritarismo, dell’attrazione del populismo, della deresponsabilizzazione del tecnocratismo.

Solo in un contesto nel quale si può sapere tutti insieme come stanno le cose si possono anche prendere decisioni condivise in vista del bene comune.

Che cosa si può fare

C’è un grande scetticismo in giro sulla possibilità di fare qualche cosa intorno a questo problema. Come si può contrastare una tendenza nella quale tanti milioni di persone intrappolate nelle gabbie dorate e nelle echo chamber di internet sembrano vivere bene e non volersene uscire? Come si può contrastare una tendenza che serve così bene gli interessi delle lobby più ricche e delle organizzazioni autoritarie più potenti? Come si può modificare una rete che tecnicamente è tanto difficile da replicare o superare e che in fondo è divertente così?

Le idee in effetti non mancano. Quattrociocchi osserva che la logica della disinformazione nelle echo chamber è molto difficile da contrastare proprio perché le notizie che confermano quello che si sa sono molto ascoltate e quelle che non confermano sono ignorate: «Una strada per contrastare questa situazione viene dalle soluzioni basate su algoritmi» come stanno provando a fare Google e Facebook. In modo che peraltro lo stesso Quattrociocchi considera controverso: perché non è detto che gli algoritmi dei giganti citati funzionino e perché nel rischiano di frenare la libertà di espressione (Wef).

Come si è visto, Carlo Ratti e Dirk Helbing hanno proposto un approccio orientato alla ricerca di un equilibrio tra l’anarchia e il controllo (questo blog).

Questo essenzialmente suggerisce di fare un passo deciso: dal quantitativo al qualitativo.

Una logica di gestione dell’informazione puramente quantitativa finisce in una tautologia, molto probabilmente. Occorre capire come introdurre un pensiero qualitativo nella rete. Perché in fondo qui siamo parlando di qualità dell’informazione. E questa non necessariamente può risultare da un trattamento algoritmico dell’informazione. L’idea dei big data e la data science è un modo positivo per guardare all’information overload e tirarne fuori conoscenza. Ma non può funzionare nella banalità dell’approccio puramente quantitativo popolarizzato con superficialità per esempio da Chris Anderson (The end of theory). Occorrono i dati e la meravigliosa generatività di conoscenza che producono. Ma occorre teoria, epistemologia, interdisciplinarietà… E poi design, visualizzazione, arte…

Siamo a una svolta epocale. Da Harvard, arriva un suggerimento di Susan Fournier, John Quelch e Bob Rietveld: guardare ai dati non come gestori di informazione, ma come antropologi: non solo per gestirli ma anche per interpretarli (Hbr).

La grande storia inaugurata da Claude Shannon con la sua “Mathematical Theory of Communication” – che ha inventato il bit, nel 1948, e stabilito lo spazio dell’ingegneria dei dati chiarendo che il problema che si poneva era gestire l’informazione non capirne il significato – ha generato l’epopea dei computer. Nel mezzo secolo successivo la ricerca sul significato è andata in minoranza, ma ha continuato a svilupparsi nelle scienze umane, nel design, nell’arte. Ora è tempo di convergenza.

Il successo e la reputazione online sono stati per troppo tempo giudicati con metodi quantitativi banalizzanti, affiancati ad algoritmi fondamentalmente basati sugli stessi metodi quantitativi e dunque altrettanto banalizzanti. Il che non era poi tanto diverso dalla valutazione quantitativa dei programmi televisivi basata esclusivamente su audience e share: in un contesto di modelli di business pubblicitari, quell’ossessione quantitativa aveva condotto alla scelta di programmi di dubbia qualità in nome della quantità. C’è un modo per cambiare rotta? Ed esiste un modo per fare qualità quando ormai le fonti tradizionali della qualità hanno perso credibilità (e solo talvolta giustamente, come musei, biblioteche, giornali, università, archivi)?

Le prossime piattaforme dovranno contenere tutta la sagacia tecnica che è emersa sulla rete ma dovranno saper ascoltare la saggezza antica sapeva discernere ciò che era speciale nel mucchio di ciò che era ordinario, che si prendeva la responsabilità di scegliere ciò che è importante e ciò che non lo è, ciò che è documentato, studiato, dibattuto, sperimentato, deliberato, e ciò che è soltanto immediatamente curioso.

Forse, non si può eliminare la disinformazione, ma si possono creare luoghi di senso nei quali attrarre i cittadini e sperare che diventino nel complesso più importanti di quelli nei quali ci si perde dietro idee inutili.

Non si torna indietro. Ma proprio per andare avanti, la scienza e l’arte, la dimensione umanistica e tecnica, convergono, nella progettazione delle prossime piattaforme. Il management dell’informazione si affianca alla necessità di interpretazione dei dati. La ricerca sull’emergenza dei “molti” si affianca all’ascolto degli “speciali”. Il quantitativo si affianca al qualitativo. La classificazione dei fenomeni si affianca al rispetto delle diversità. La pratica di confermare o rigettare le ipotesi si affianca alla semplice sorpresa. La ricerca delle risposte giuste si affianca alla ricerca delle domande giuste.

Come non vedere che tutto questo è soltanto l’inizio di un grande impegno per l’ecologia dei media?

Vedi anche:
La gabbia dorata dei social network esiste, dice uno studio. Ratti e Helbing hanno un’idea
La scoperta della ruota complessa sorprende un mondo che affonda in modo lineare
Movimento per l’ecologia dei media
Dati, informazione, conoscenza. Discernimento. Saggezza
La disinformazione è inquinamento
Day4: disinformazione educativa
Libri – FILTER BUBBLE – Eli Pariser
Ecologia dell’attenzione
Attenti al loop! (Un approfondimento sul concetto di conversazione)

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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