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Un nuovo inizio nel 2021. E la formazione di una comunità informata /4 – Modelli editoriali

Riflessioni e progetti per cominciare l’anno. Tra la fine del 2020 e il principio del 2021 sono uscite la prima, la seconda e la terza puntata di questa serie sul rapporto tra le strutture dell’informazione e la formazione della comunità. Questa quarta parla dei modelli editoriali in chiave prospettica. Ma comincia da un fatto di attualità.

I fatti. L’ex presidente Donald Trump ha preso sette milioni di voti in meno del rivale Joe Biden. I voti elettorali conquistati da Biden sono molti di più di quelli di Trump. La Corte Suprema ha rigettato le istanze di Trump sui presunti brogli. Trump ha perso ed è stato licenziato. Ma Trump scrive su Twitter che il 92% degli elettori repubblicani pensano che le elezioni siano state truccate. E cita questo come un fatto che dovrebbe minare la legittimità delle elezioni. Ma il fatto dimostrabile è un altro. E cioè che Trump ha incessantemente sostenuto che le elezioni erano truccate. Le sue affermazioni hanno diffuso l’opinione che a quanto pare molti americani ora condividono (Slate). È un caso di autoreferenzialità perfetto. Il factchecking appare inutile. La documentazione non serve. Chi crede a queste affermazioni non crede a niente altro e pensa che chiunque li contraddice fa probabilmente parte del complotto.

Le regolarità dell’innovazione nell’editoria digitale

1. Lo spostamento della scarsità. Nel mondo editoriale analogico, lo spazio per pubblicare era scarso. Chi possedeva quello spazio controllava la risorsa scarsa del mercato. E poteva stabilire il prezzo di quello spazio, per l’informazione e per la pubblicità. Chi possedeva lo spazio scarso controllava il mercato. Nel momento del passaggio alla tecnologia digitale, lo spazio per pubblicare non è più scarso. Quindi il prezzo dello spazio si abbassa. Gli editori che controllano quello spazio hanno una risorsa che non è scarsa e non vale molto. Vivere di rendita non è conveniente. La scarsità non è nello spazio sul quale pubblicare ma nel tempo del pubblico, nell’attenzione del pubblico, nella disponibilità del pubblico a ritenere rilevante qualcosa che venga pubblicato. Il pubblico controlla le risorse scarse e dunque controlla il mercato. Non vince ci vive di rendita ma chi innova al servizio del pubblico. Questa è la situazione nel passaggio dall’analogico al digitale. La disintermediazione vince.

2. L’effetto-rete. Mentre viene abbattuto il controllo dei vecchi editori, gli innovatori che si concentrano sul servizio al tempo e all’attenzione del pubblico riescono a costruire piattaforme che riducono l’information overload e offrono strumenti di accesso personalizzato alle informazioni. Le piattaforme come tutte le tecnologie di rete godono dell’effetto-rete. Per cui le più usate tendono a concentrare tutte le risorse della rete e a diventare monopoliste nella loro categoria di servizio. La loro capacità di generare reddito consente alle piattaforme di investire risorse sempre più grandi per migliorare il servizio e distruggere i potenziali avversari. Appare una reintermediazione molto difficile da scalfire.

Rivediamo questi passaggi storici, prima di proseguire con le “regolarità”.

Negli anni Novanta del secolo scorso, nel contesto di un capitalismo sempre più schiacciato su finanza e consumo, la tecnologia digitale è entrata in gioco come una grande alternativa, secondo le convinzioni dei suoi pionieri, solo per essere assorbita nelle logiche dominanti nel corso di una decina d’anni. Gli editori sono stati indeboliti dall’attrazione fatale per pubblicità e finanza e condannati dalla loro incapacità tecnologica.

Tra il 1990 e il 1995 è partito il web e i primi giornali che ci sono andati sopra. Prima come pionieri. Poi maturando con furbizia ma senza strategia l’idea che avrebbero potuto imitare la televisione commerciale e vivere di pubblicità. Tra il 1995 e il 2000 sono entrati nel mondo della speculazione finanziaria e hanno perso. Tra il 2000 e il 2005 hanno mancato tutte le occasioni per innovare la loro tecnologia e il loro rapporto con la società.

A quel punto era tardi per salvare i giornali tradizionali. Dopo tanti anni di progetti e speranze, nel 2006 su questo blog è apparso lo slogan: “Il giornale non è la sua carta”. La speranza era che si riconoscesse la necessità di superare il modello di business centrato sulla carta e si sviluppasse un rapporto più intenso tra le redazioni e il pubblico. Ma occorreva un salto di astrazione nella concezione del lavoro che si doveva fare. Il valore dell’informazione professionale andava proposto in modo nuovo, ma esisteva ancora. Dieci anni ancora dopo questo salto di astrazione era ormai necessario, visto che il contesto aveva distrutto i giornali tradizionali ma non li aveva sostituiti con un nuovo sistema per sapere come stanno le cose. Sicché nel 2016 su questo blog è apparso un nuovo slogan: “Il giornalismo è il suo metodo”. Un metodo fatto di documentazione, indipendenza dalle fonti, accuratezza, legalità, senso delle proporzioni, spirito di servizio.

La memoria di quello che sono stati i giornali forse si affievolirà, man mano che la società resterà popolata da persone che da giovani che non ne hanno mai letti. Forse la resistenza di alcuni casi straordinari, dal New York Times all’Economist, da ProPublica a Mediapart, manterranno in vita l’idea di giornalismo. Quello che è certo è che la disponibilità di conoscenza di qualità resterà davvero necessaria per qualsiasi attività economica, sociale, politica. La produzione e la gestione della conoscenza, sui fatti di attualità o sul loro contesto storico, resterà un processo complesso immerso nelle strutture dell’ecologia dei media e nelle pratiche della comunicazione. Ma meriterà una riflessione approfondita. Perché un nuovo modello adatto alla contemporaneità potrebbe anche emergere.

Ma riprendiamo il filo delle “regolarità”.

3. Il potere del modello di business. Le piattaforme digitali vincono sui servizi analogici e su quelli che pur lavorando in digitale mantengono una struttura produttiva simile a quella del mondo analogico. Ma nel mondo digitale, la velocità evolutiva è tale che la strategia è dettata soprattutto dal modello di business, l’aspetto più durevole delle imprese che si fondano su questa tecnologia. Il modello di business più facile da adottare per le piattaforme che organizzano la conoscenza e le relazioni sociali, a quanto pare, è la pubblicità. Perché consente di far credere al pubblico che il servizio è gratuito. E motiva gli inserzionisti pubblicitari con un’offerta imbattibile, molto targettizzata e con molti dati che consentono di valutare il ritorno sull’investimento.

Nel corso di quei sedici anni, tra il 2000 e il 2016, gli utenti sono migrati in massa sui media digitali, i giornali hanno perso metà del loro peso economico e informativo, Google è diventata più grande di tutti i giornali del mondo messi assieme, il boom della disinformazione ha fatto pensare a una necessaria rifondazione del sistema dell’informazione. Un cambiamento spettacolare: i numeri sono qui su questo blog.

Ma l’altra conseguenza del modello di business delle piattaforme è una tendenziale indifferenza alla qualità dell’informazione. Se gli inserzionisti sono contenti di come le piattaforme consentono loro di raggiungere il tempo e l’attenzione del pubblico, perché dovrebbero lavorare sulla qualità dell’informazione? Dal 2016, anno della Brexit e di Donald Trump, si sono scritte biblioteche per documentare come l’insana convinzione secondo la quale i media digitali sono inadatti a informare ma solo a manipolare le coscienze. Convinzione che scricchiola tra i beneducati che osservano come i media digitali abbiano anche portato alla tornata elettorale per le presidenziali americane più partecipata della storia con il risultato di licenziare il presidente americano più disinformato della storia. Nel 2020, immersi nei media digitali, gli americani si sono liberati di Donald Trump senza rimpianti e gli inglesi si sono liberati dell’Europa senza traumi. Per qualcuno potrà significare che i problemi dell’informazione sono adesso meno importanti, ma la questione è tutt’altro che risolta. Anche perché nell’anno della pandemia, l’Oms ha lanciato il concetto di infodemia. E i numeri di chi dichiara di voler rifiutare il vaccino anti-covid-19, anche tra gli infermieri, sono tali da dimostrare che il rinsavimento della popolazione occidentale è tutt’altro che avvenuto.

4. L’innovazione non si ferma. Qualunque opinione radicale, pessimista oppure ottimista, che riguardi i media digitali è ovviamente parziale. L’ecosistema è complesso e non si lascia ingabbiare in un’ideologia, né di segno tecnofilo né a baricentro tecnofobico. Odio online, disinformazione, distruzione delle autorità culturali, banalizzazione del dibattito, sono tutte realtà che esistono e pesano sulla dinamica culturale. Ma non sono le sole dinamiche in atto. Un grande ritorno di importanza ed energia di alcuni centri culturali che hanno compreso in che epoca vivono, dal Guardian agli Uffizi, da Pompei al network delle biblioteche civiche, dalle università più innovative alle iniziative di lifelong learning, dimostra che la qualità dell’informazione può essere il futuro e non il passato. E Wikipedia non cessa di incoraggiare chi ci pensa e ci prova. Intanto, gli interventi della Commissione Europea per modernizzare le responsabilità delle piattaforme con il Digital Services Act e il Digital Markets Act, proseguendo la strada aperta dal GDPR, sembrano indicare una via di qualità per il mondo digitale. Almeno come esigenza europea.

Ma fin qui siamo ancora alle precondizioni eventualmente favorevoli. La nascita di un sistema dell’informazione adatto alla contemporaneità ha bisogno di concetti più chiari e modelli di business più evidenti. Perché poi fare informazione è un lavoro di tale impegno che non lo si può svolgere mentre ci si dedica anche a trovare ogni giorno un espediente per mantenerlo economicamente.

5. La sperimentazione di modelli differenti. Un fatto è certo. Le soluzioni non saranno poche ma molte. Gli editori non saranno soltanto quelli che vengono dall’editoria del passato. La convinzione che la società abbia bisogno di informazioni di qualità si farà sempre più strada man mano che i modelli prevalenti dimostreranno di non essere in grado di garantirla. E le strutture dell’economia entreranno tutte in gioco: la beneficienza privata, come con ProPublica, Guardian e Wikipedia; il servizio pubblico statale, come alla BBC; la logica del capitalismo degli stakeholder, come con il New York Times o il WEF; la cultura della qualità come con l’Economist; le altre esplorazioni come gli abbonamenti per membership, le inchieste in crowdsourcing, il superamento della pubblicità e il passaggio al supporto alle vendite online, la connessione tra formazione e informazione… In tutti i casi si tratta di dimostrare il valore dei sistemi informativi che una volta si chiamavano giornali in relazione al servizio per la comunità degli utenti, dei lettori o dei cittadini.

La comunità emerge come il punto di riferimento più importante.

Questo può avvenire escludendo la comunicazione autoreferenziale dal novero dei sistemi di informazione, concentrando gli sforzi sull’informazione di servizio e sulla partecipazione alla sua produzione dei nuclei principali delle comunità di riferimento, in base comunque a un metodo di ricerca e validazione delle informazioni di tipo trasparente, indipendente ed empirico. 

La partenza di nuovi strumenti di informazione avviene con progetti di servizio e organizzativamente inclusivi nei quali la comunità è servita e la comunità partecipa. I protagonisti possono essere antichi sistemi informativi che si ridefiniscono al servizio della comunità con metodo oppure possono partire da comunità che si danno strumenti di informazione e poi li aiutano a crescere per diventare istituzioni comuni autonome aggregando di volta in volta nuovi stakeholder che si incontrano sulla stessa pagina con metodo, servizio e partecipazione.

Comunità è il concetto centrale della costruzione di una qualità dell’informazione. Perché il giornale non è la sua carta ma il sistema di relazioni di fiducia costruite sul servizio che un’organizzazione che informa intrattiene con la sua comunità. Perché il metodo giornalistico evolve in in insieme di regole che vengono riconosciute e adottate come proprie dalla comunità che si forma una cultura adatta a riconoscere e apprezzare l’informazione di qualità. E tutto questo può prevalere sui modelli alternativi solo se produce nel tempo un risultato di sviluppo visibile. Forse la Svizzera è un paese che può insegnare qualcosa da questo punto di vista. Ma è chiaro che la protezione e lo sviluppo di beni comuni come la fiducia nella professionalità di chi informa, la razionalità del giudizio sul valore dell’informazione di qualità, l’onestà intellettuale di accettare i fatti per quello che sono anche se vanno in direzione contraria ai pregiudizi, sono grandi obiettivi tutti da coltivare, in un contesto culturale attento alle complessità della media ecology.

6. Le tecnologie persuasive. Difficile non vedere il valore di quello che sostiene B.J.Fogg per quanto riguarda la persuasività dell’interfaccia. Una tecnologia viene adottata se il pubblico vede che è facile da usare per scopi abbastanza importanti e se presenta elementi che spingono a non procrastinarne l’utilizzo. Sono questi “piccoli” elementi spesso a fare la differenza, sia quando le tecnologie sono stupide, generano ignoranza e dipendenza, sia quando possono servire a elevare la qualità della conoscenza delle persone.

7. La creazione di nuovi mercati. Se è vero che l’effetto-rete genera monopoli difficili da abbattere in una categoria di servizio, è anche vero che un monopolio in una categoria non garantisce l’estensione del vantaggio a una nuova categoria. Il vincitore nella categoria “motore di ricerca” non è riuscito a vincere nella categoria “social network”. Il vincitore nel “social network” non ha vinto nella categoria “affitto di stanze nelle case private”. Il vincitore nell’ecommerce generalista non vince nell’ecommerce di design. Tutto questo significa che chi svela una nuova categoria di servizio e propone una soluzione tecnologicamente vincente oltre che culturalmente convincente può creare un nuovo mercato e diventarne una sorta di monopolista. Succederà anche con l’informazione di qualità. Con un’avvertenza: in questa particolare categoria di servizio la fiducia è essenziale.

8. Beni-esperienza. Il branding è importante in ogni attività. Ma nei servizi tecnologicamente avanzati che riguardano servizi culturalmente sofisticati il brand è particolarmente importante. Una “testata” non è soltanto un nome. È una promessa. E fino a che quella promessa è mantenuta, la testata ispira fiducia e vince. Un bene esperienza infatti si “paga” prima di sapere se vale il suo prezzo. Si compra una bottiglia di vino perché l’etichetta incarna una promessa e di solito la mantiene. Se cessasse di mantenere la promessa non avrebbe senso comprare quella bottiglia. Ogni oggetto culturale è un bene-esperienza: si dedica tempo o denaro a quel bene e poi si vede se vale il suo prezzo. All’effetto-rete e all’invenzione di una categoria di servizio si aggiunge la qualità culturale dell’iniziativa. Questo mantiene elevato il numero di partecipanti al mercato. Lo si vede per esempio nel mercato delle traduzioni: centinaia di aziende nel mondo, lavorano grazie alla fiducia che i clienti accordano loro, anche se la piattaforma tecnologica delle traduzioni potrebbe consolidare il mercato. L’informazione di qualità sarà sempre un bene-esperienza. E il suo successo sarà fondato sempre sul mantenimento nel tempo delle promesse. Qualsiasi strategia a breve termine in questo settore è perdente.

9. La formazione è la precondizione dell’informazione. Sugli stessi strumenti tecnologici, telefoni, tablet, computer, televisioni, si trovano servizi commerciali, servizi della pubblica amministrazione, intrattenimento, informazioni di qualità, comunicazioni manipolatorie. L’educazione al discernimento dell’informazione di qualità è un compito da sviluppare in un contesto complesso nel quale tutto coevolve con tutto. L’apparenza inganna. La formazione è essenziale. In un certo senso, l’informazione è la manutenzione della formazione. In tutti i casi, la formazione è la precondizione abilitante dell’informazione di qualità. E la formazione attraversa il suo cambiamento epocale. Diventa lifelong learning. Tutta la comunità partecipa alla formazione se questa è un’attività che si svolge per tutta la vita. In un contesto che cambia radicalmente e velocemente, ciò che si è imparato in passato è importante ma serve a prepararsi a imparare ciò che sarà necessario sapere in futuro. Tra informazione e formazione c’è una relazione che diventa tanto stretta da motivare la nascita di una sorta di nuovo modello di business.

Nella prossima puntata: esempi per una nuova informazione di servizio di qualità… non pensate subito solo alla politica… a quella ci si arriva, forse, ma dopo… (anche perché oggi si parla più di intelligenza artificiale che di intelligenza collettiva)

La serie:
Formazione di una comunità informata.
Puntate:
Introduzione
Scenari
Economia
Editoria
Strategie

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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