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L’odio e altre trappole

In sintesi: chiunque ha il diritto di odiare chi vuole. E di mentire. E di coltivare sentimenti razzisti. Purtroppo chi si comporta così sta male. Qualche volta rovescia il suo malessere verso gli altri. Fine del discorso? Quasi: ci sono due chiose. Nell’ecologia dei media digitali, esistono incentivi ampi a usare le debolezze altrui per ottenere scopi commerciali e politici di ogni genere. La strumentalizzazione dell’odio è evidentemente una delle forme di propaganda più efficaci. Le sue conseguenze possono essere dirompenti. Il problema è certamente più culturale che normativo: le leggi per contenere le eventuali conseguenze penali di questi fenomeni esistono in gran parte già. Riflettere su queste cose è necessario. Domandarsi se si possa fare qualcosa che abbia un senso è un’esigenza del tutto comprensibile. Trovare risposte è tutt’altro che ovvio.

Odio, fake news, banalizzazioni, generalizzazioni che fanno di ogni erba un fascio e preludio di ogni razzismo, perdita del senso delle proporzioni, paura, bullismo, intimidazioni, propaganda al posto dell’informazione, e così via. Se ne parla ogni giorno in ogni passaggio storico che genera una condizione endemica di violenza sociale. Se n’è parlato dopo la Prima Guerra Mondiale, fino all’avvento del fascismo. Se n’è parlato quando il razzismo è emerso in tutta la sua orribile potenza in un paese apparentemente tranquillo come l’Italia che si preparava alla Seconda Guerra Mondiale. Se n’è parlato negli anni Settanta, gli anni di piombo. E se ne parla oggi, anche se le forme della violenza attuale sono orrende quando coinvolgono il terrorismo, ma al confronto angosciosamente ridicole quando sono portate avanti dai “cattivi” della politica occidentale. Il che non riduce l’importanza di studiare ciò che avviene: le democrazie sono meccanismi delicati, che vivono anche del rispetto reciproco tra i cittadini. Se questo viene meno, ogni giorno si può demolire qualcosa di importante, fino ad aprire la strada a comportamenti meno ridicoli e molto più angoscianti.

In questa fase in cui molti europei che temono di perdere la democrazia certamente non l’hanno persa, vale la pena di impegnarsi a capire il fenomeno della endemica violenza che permea il dibattito e di dibattere le forme con le quali la non-violenza può farsi valere.

E quindi prima di tutto: di che cosa parliamo quando parliamo di “odio in rete”? Da una parte, l’odio è la conseguenza di un malessere e come tale va compatito, per affrontare le cause della sofferenza che lo genera. Dall’altra parte, può essere una condizione emotiva tra le altre che i maestri della propaganda possono utilizzare per diffondere le loro istanze: l’odio può essere razionalmente indotto e strumentalizzato per hackerare il sistema democratico.

Si può fare qualcosa, si domandano in molti, dalla Commissione europea al governo italiano? È più chiaro quello che non si può fare. È del tutto evidente che non si può impedire di odiare per legge. È del tutto evidente che la propaganda è parte del gioco democratico. Ed è altrettanto evidente che i media digitali possono essere usati per realizzare con particolare efficacia una forma di propaganda basata sulla violenza concettuale, nella quale non c’è solo l’odio, ma appunto anche fake news, banalizzazioni, generalizzazioni che fanno di ogni erba un fascio e preludio di ogni razzismo, perdita del senso delle proporzioni, paura, bullismo, indimidazioni, propaganda al posto dell’informazione, e così via.

ReImagine Europa si occupa di tutto questo con piglio scientificamente attento, grazie alla guida di Manuel Castells. E seguirne le attività può essere interessante: Democracy in a digital society.

Come è possibile che si dedichi tanto tempo a una questione sulla quale c’è poco da fare, dal punto di vista legislativo? Probabilmente perché i cambiamenti in atto sono così radicali, in apparenza, che occorre comprendere meglio la situazione.

Ma che cosa è diverso, in realtà, rispetto al passato?

Sono nato 11 anni dopo la fine della guerra. L’Italia si era appena ripresa e aveva iniziato il suo “miracolo economico”. I segni delle granate erano ancora visibili sui muri di molti palazzi e le bombe inesplose erano ancora pericolosamente nascoste tra le macerie lasciate qui e là dal conflitto. Tra i motivi della guerra degli aggressori italiani, il razzismo è restato ancora più a lungo delle bombe inesplose, tra i sedimenti culturali del paese. Del resto, il fascismo si è inabissato nella società dopo essere stato sconfitto anche grazie alla resistenza, ma non ha avuto la sua Norimberga. La violenza della guerra, in Europa occidentale, si è manifestata ancora, dai Balcani a Cipro e all’Ukraina, ma non ha più coinvolto la maggior parte del territorio, grazie al progetto europeista. Sicché gli europei occidentali che avevano hanno insegnato al pianeta come ci si massacra, dopo il 1945, hanno smesso di farlo tra loro, pur partecipando alla guerra infinita imposta dalla “pax” americana. La violenza è parte della storia. E della violenza fanno parte molte diverse dimensioni della realtà sociale: il potere cieco e autoreferenziale, politico o finanziario; l’inganno e la disinformazione che manipola le coscienze e strumentalizza l’ingnoranza; la paura e l’odio. Mio padre è stato condannato a morte dai fascisti. Ma per fortuna se l’è cavata.

Da parte mia, ho attraversato gli anni di piombo. Oggi sappiamo, o crediamo di sapere più o meno, che si è trattato di un aspetto secondario ma non di piccolo conto della Guerra Fredda. La bellezza selvaggia e innovativa delle rivoluzioni musicali e delle innovazioni dei costumi degli anni Sessanta, nel decennio successivo è stata incanalata nel confronto violento tra estremismi politicamente eterodiretti. In quello scorcio di Guerra Fredda, appunto, nelle “colonie” di confine come l’Italia, si consumavano violenze orribili tra le fazioni locali che le potenze egemoniche potevano strumentalizzare per i loro fini di controllo del territorio, con l’aiuto dei servizi segreti e di altre camarille. Di quel quadro generale potevano comprendere poco i giovani che, come me, si dedicavano alla non-violenza del Mahatma Gandhi e alla consapevolezza ecologica suggerita dai “Limiti dello sviluppo”. Gente fuori contesto che trovava ascolto molto localizzato. Nel corso degli anni Settanta, ecologia e non-violenza erano sensibilità a dir poco minoritarie. Ogni giorno invece le maggioranze subivano piccole e grandi violenze, sottili e aperte intimidazioni. La libertà di espressione era un lusso per i più coraggiosi, mentre i timorosi si perdevano nel conformismo, cioè nel silenzio o nell’accettazione pecorona di uno dei vari settarismi dell’epoca. Il tifo calcistico si mescolava alla violenza politica. Certi alloggi universitari e certe fabbriche diventavano depositi di spranghe e di armi. Il peso delle stragi si faceva insopportabile. Lo stillicidio degli attentati sempre meno comprensibili diventava sofferenza quasi quotidiana. I delitti erano commessi da clandestini che reti incredibilmente diffuse di conniventi aiutavano a sopravvivere. Il calcolo freddo di chi strumentalizzava tutto questo si traduceva in una regia quotidiana, destinata storicamente a una sconfitta che solo alcuni sapevano prevedere in quell’incendio sociale apparentemente inestinguibile. L’odio era un pericolo per la carne degli avversari e per la libertà delle persone che non prendevano parte alla violenza.

Anche quel periodo è finito. La smaterializzazione della violenza è andata di pari passo con molte altre forme di mediatizzazione alle quali gli italiani hanno assistito negli anni Ottanta e Novanta caratterizzati dalla finanziarizzazione consumista costruita con la televisione; e negli anni Duemila con la digitalizzazione a trazione pubblicitaria.

Ci si è accorti piuttosto presto che anche nel contesto digitale, l’odio si prestava a essere anche uno strumento della manipolazione delle coscienze che serviva al potere. Nel 2006 se ne scriveva, su questo blog e altrove (Da Parigi: l’odio in rete). Il compianto Antonio Roversi faceva ricerca sui siti dell’odio molto prima che diventassero oggetto di gruppi di studio governativi (come quello appena annunciato del quale sono stato chiamato a far parte: Gruppo di lavoro sul fenomeno dell’odio online). E questo blog appunto ne dava conto. Le analisi di Roversi si riferivano ai siti di odio calcistico, di odio religioso, di odio razzista. La morfologia e le dinamiche si assomigliavano paurosamente. Già allora i contenuti davano il voltastomaco. E già allora si comprendeva chiaramente come l’unica via d’uscita fosse la cultura, la consapevolezza, la creazione di opportunità umane più grandi e più belle. (Vedi anche: Attenti al loop!).

Ci sono poche certezze di fronte all’odio. Sappiamo per esempio che odiare non può essere vietato. La legge deve stare al suo posto. L’odio non è un oggetto sul quale si possa legiferare. Bisogna ammettere, peraltro, che la maggior parte delle azioni umane in qualche modo connesse – o conseguenti – all’odio e che meritano un intervento giuridico sono già state normate. D’altra parte, in tanti osservano come i media digitali servano al potere per sfruttare in modo capillare l’odio, la paura e altre passioni strumentalizzabili, amplificandone le conseguenze. Ma questo non sembra essere un problema di leggi mancanti. Di certo è un problema di intelligenza da sviluppare. E se serve a capirne qualcosa di più, ben venga il gruppo di lavoro istituito dal governo. Se riuscirà a definire meglio il problema tanto di guadagnato. Altrimenti si sarà perso un altro po’ di tempo.

Le strategie emergenti non dovranno prestarsi a smentire la qualità della democrazia che si prefiggono di salvaguardare. Forse le forme tattiche di sfruttamento e amplificazione dell’odio in chiave di potere possono essere contenute, come si fa con i virus? Può darsi, anche se è ben poco chiaro come si possa fare. La sola strategia che alla lunga può servire a qualcosa per controbilanciare l’odio è lo sviluppo di qualcosa che valga la pena di amare.

Vedi
Antonio Roversi, L’odio in Rete. Siti ultras, nazifascismo online, jihad elettronica, 2006
Giovanni ZIccardi, L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, 2016
Giovanni Pitruzzella, Oreste Pollicino, Stefano Quintarelli, Parole e potere. Libertà d’espressione, hate speech e fake news, 2017

Photo by Jon Tyson on Unsplash

4 Commenti

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  • Verso la fine della sua vita, il padre della Psicologia Analitica, Carl Gustav Jung scriveva in un capitolo intitolato “Ultimi pensieri” alla fine della sua autobiografia:

    “Di regola, comunque l’individuo è talmente inconscio che non conosce la sua capacità di decidere, e per ciò va ansiosamente alla ricerca di regole e leggi esterne che possano sostenerlo nella sua perplessità. […] Perciò, chi desideri avere una risposta al problema del male, così come si pone oggi, ha bisogno, per prima cosa, di conoscere se stesso, e cioè della maggiore conoscenza possibile della totalità. Deve conoscere senza reticenze quanto bene può fare, e di quale infamia è capace, guardandosi dal considerare reale il primo e illusoria la seconda.”

    Come scrive Luca forse dobbiamo recuperare una maggiore consapevolezza storica per comprendere come la violenza in varie forme costella da sempre la vita umana anche contemporanea. Oggi non siamo più violenti che in passato, ma i social media rendono più evidente il nostro lato ombra con il quale tutti dobbiamo fare i conti. In misura diversa tutti abbiamo un lato istintivo, reattivo, meno sviluppato, poco interessato al vivere civile, fragile, infantile, ferito che non vorremo avere o aver avuto in passato.

    Lati di cui magari ci vergogniamo o che semplicemente non ci piacciono, ci fanno sentire delusi o irritati da noi stessi e spesso ci proteggiamo proiettando inconsciamente su gli altri queste nostre parti. Le cause sono diverse e da comprendere ciascuno nella sua unicità. Ci sono fattori evolutivi in quanto primati, dei fattori socio-culturali e ovviamente psicologici, biografici. Tutto questo è noto con la psicologia da più di un secolo eppure fatica a diventare patrimonio della società, un fondamentale patrimonio di conoscenze e prassi su cui costruire un vivere migliore. Perché? E’ solo una questione di inevitabile lentezza dei grandi cambiamenti? I fattori sono tanti ma di sicuro il solo sapere intellettuale non basta, leggere tanti testi di psicologia per lavorare sulle proprie difficoltà interiori non serve. Molto più utile lavorare direttamente sulle proprie emozioni, ma è difficile se nessuno ci ha mai accompagnato. Ma questo è un altro tema grande che meriterebbe uno spazio a sé.

    L’odio che un tempo veniva incanalato nel conflitto tra diverse identità, nelle varie forme di tribalismo ideologico, territoriale, religioso, ecc.. oggi si manifesta nel quotidiano palcoscenico dei social networks. In modo destrutturato ma pervasivo si mostra allo scoperto, nudo di velleità ideologiche, nei commenti dei social, spesso come puro anonimo sfogo. Forse quello che può apparire sconcertante è la “banalità del male” quotidiano. Ma come Luca invita a riflettere è la banalità e pervasività della sofferenza forse la cosa più difficile da accettare.
    La pervasività della sofferenza odiante è più palese e quindi è più difficile evadere il problema del male non solo come azione negativa ma anche come la sofferenza e mancanza di consapevolezza che lo causa.

    Luca aggiunge un elemento però di rischio non indifferente, che rende questo tema ancora più rilevante e urgente. L’inquietante tema di come internet permetta di usare con molta più precisione la leva della paura, dell’odio e di altre emozioni “basse”. Non che in passato tutte le forme di propaganda e persuasione non cercassero di influenzare le credenze ed i comportamenti ma oggi c’è una potenziale capacità di influenzare parti della popolazione senza confronti col passato. Yuval Noah Harari ha scritto molto su questo.

    Che fare?

    Credo che la soluzione possa essere solo in parte tecnica e legale, tutto questo fenomeno è anche un grande specchio della condizione e funzionamento di noi umani. Quindi sono necessari profondi cambiamenti culturali e sociali. Per esempio a partire dai modelli base che abbiamo di educazione, di persona adulta. Cosa ci mostra la rete se non una diffusa alienazione e sofferenza travestita da odio? E’ solo una questione socio-economica? Oppure ha a che fare con certe predisposizioni dell’umano se lasciato senza riferimenti e prassi?
    Se pensiamo alla scuola quello che vediamo è istruzione non educazione. Se ne parla da tempo e credo sia il momento di rendere normale l’educazione emotiva e relazionale a scuola tanto quanto l’imparare a leggere e scrivere. Ovviamente la scuola non risolve tutto è solo uno dei tanti punti da cui partire.
    La malattia più diffusa nel 2030 sarà la depressione, vorrà dire qualcosa, no?

    Mi fermo qui altrimenti diventa troppo lungo per essere un commento.

  • Credo sia necessario distinguere le manifestazioni d’odio perpetrate attraverso il “mezzo” digitale rispetto all’odio di “piazza”. Certamente di odio si tratta in entrambi i casi e a volte dello stesso odio, ma le connotazioni dell’odiatore sono molto diverse. E’ fuor di dubbio che la manifestazione di un sentimento (qualunque esso sia) che pone il rischio della perdita del controllo di sé è un esercizio direi quasi innaturale. Per tale motivo, credo, che il vero odiatore (e forse anche quello più pericoloso) sia il soggetto che non teme di mostrarsi fuori del controllo di se, quello della piazza, quello “genuino”, quello magari spinto da una qualche forma di disperazione. Cosa diversa è l’odiatore digitale. E’ più perverso perché odia nel conforto della distanza, perché non manifesta fino in fondo la perdita del controllo di sé, appunto perché distante (o quanto meno così crede). Quasi mai questo soggetto odia per disperazione, lo fa per il gusto di farlo. Prendendo spunto da una analisi statistica letta qualche tempo addietro si evince che l’età media degli haters in rete è di circa 46 anni. Questo dato lo trovo estremamente interessante e per certi versi positivo: esso ci spiega che l’attitudine all’odio (in rete in questo caso) è una caratteristica dei “non nativi” social e spesso dei non nativi digitali. Di persone, cioè, che hanno in qualche modo imparato ad usare un mezzo di comunicazione nuovo dopo averne usato un’altro per tutta una vita. La semplificazione e la scarsa conoscenza dello strumento hanno portato questi individui a sostituire invece che integrare, quindi si esprimono oggi sui social come prima facevano al bar con la differenza che viene a mancare il diritto di replica o per meglio dire il diritto di replica è soggetto al governo di una delle due parti, quindi inquinato. La componente positiva di tutto ciò è insita nel fatto che probabilmente tra qualche generazione questo fenomeno si esaurirà con l’avanzare dei nativi social. Altro aspetto è quello che riguarda il bullismo in questo caso la fascia di età si abbassa e certamente comprende un buona fetta di nativi.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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