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Populisti e tecnocratici. C’è una via d’uscita (a parte Brexit)…

Populisti o tecnocratici? Tertium datur: queste sono alternative pessime, estremiste, prevalenti attualmente ma non coprono tutto l’arco delle possibilità.

Riprendiamo da un punto accennato in un precedente post. La Brexit ha evidenziato due punti di vista divergenti: secondo un punto di vista siamo di fronte al confronto tra il populismo stupido e un governo sovranazionale intelligente; secondo un altro punto di vista siamo di fronte a un confronto tra un popolo libero e un sistema tecnocratico stupido. La conclusione, parziale, era: probabilmente si sono confrontati un populismo stupido e un sistema tecnocratico stupido. E hanno perso tutti

Vediamo meglio.

I populisti fanno politiche prive di una direzione razionale ma orientate soltanto a soddisfare nell’immediato i desideri e le voglie del popolo, oppure ad alleviarne le tensioni e le paure. Si tratta di politiche senza direzione direzione. Ma poiché questo meccanismo è efficace, in certi periodi, per ottenere consensi, si può “professionalizzare”: per esempio, facendo disinformazione per creare le paure che poi le politiche populiste devono alleviare. A quel punto non c’è più nulla di democratico.

I tecnocratici fanno politiche totalmente votate a seguire uno schema teorico che ritengono razionale. Come ogni schema teorico può andar bene in certi periodi ma tende ad andar male in altri. I tecnocratici non ascoltano il feedback della realtà e non adattano le politiche al cambiamento di contesto proprio perché non fanno altro che seguire uno schema teorico. Poiché molto spesso quegli schemi teorici promettono risultati solo se sono applicati completamente e dato che le politiche sono sempre dei compromessi, la tensione tecnocratica è infinitamente tesa a realizzare lo schema del tutto e dunque tenta di piegare le esigenze del popolo e le sue paure pur di realizzare lo schema. La forza che sostiene i tecnocratici è tecnica: i mercati, la finanza, le lobby. Molto raramente il voto degli elettori. A quel punto c’è qualcosa di democratico soltanto per caso.

Si tratta di posizioni estreme.

Esistono alternative? Ovviamente sì. Si tratta di alternative politiche. Che implicano leadership. Il populismo attuale si concentra sulla paura dell’immigrazione e sulla situazione economica molto insoddisfacente. I tecnocratici attuali puntano tutto sulla teoria secondo la quale lo stato deve essere neutrale nel gioco del mercato in modo che l’efficienza degli imprenditori possa trainare l’economia, mentre i temi diversi, tipo immigrazione, sono gestiti con schemi di suddivisione degli sforzi piuttosto freddi e spesso inapplicati. I tecnocratici dicono: “se non fate come diciamo poi non lamentatevi se non funziona”. I populisti dicono: “se non fate come piace a noi poi non lamentatevi se non applichiamo le vostre indicazioni”.

La logica del “mi piace” invece che l’argomentazione articolata fa vincere il populismo. Ma anche una teoria troppo astratta e irrealizzabile, poco adattiva e flessibile, finisce  col disgregare invece di unire. Il punto è proprio questo: come si fa a unire le forze intorno ai percorsi migliori, invece di dividere tutti intorno ai loro punti di vista separati? Difficile progettare una cosa del genere, ma di certo non si fa insistendo su uno o l’altro dei punti di vista. Occorre alzare la testa e ripensare lo schema di gioco.

Questo è il passaggio che a quanto pare sta tentando la Merkel, facendo passare il potere in Europa dalla Commissione al Consiglio. Il punto debole di quell’impostazione è che ritorna a far leva sugli Stati. Ma la dinamica elettorale negli Stati in questo momento e sulla scorta dell’eredità della contrapposizione tra populisti e tecnocratici non è orientata all’unione: è orientata a soddisfare gli elettori di ciascuno Stato senza tener conto dell’interesse dell’insieme degli Stati. I giornali non riescono a uscire da questo vicolo cieco. I politici neppure. Che cosa è fuori da queste logiche?

Le aziende che esportano, i giovani che guardano al mondo come alla loro patria, le città che crescono solo connesse, aperte, inclusive e con una policy di sviluppo ordinato e infrastrutturalmente sano più che con una politica ideologica. Questi sono i punti di partenza di una diversa cultura politica: aziende, giovani, città. Imho.

Ora si tratta di pensare un programma: fatto di media civici, investimenti, educazione…

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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