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Appunti sul libro di Giuliano da Empoli: La rabbia e l’algoritmo

libro-daempoli-grilloGiuliano da Empoli scrive La rabbia e l’algoritmo. Il grillismo preso sul serio (Marsilio 2017). E apre un dibattito che porta lontano.

Questo post non è una recensione. È una lettura del libro molto soggettiva e, nei limiti delle mie capacità, propositiva.

Circa 80 delle 85 pagine del libro sono dedicate a una critica esplicita, forte e seria del Movimento 5 Stelle. Cinque pagine sono dedicate a una implicita, forte e seria critica di chi dovrebbe rappresentare ciò che costituisce un’alternativa al M5S, in particolare, in Italia, il PD. In pratica da Empoli suggerisce di prendere molto sul serio quello che è in sostanza il M5S. E implicitamente, secondo me, quello che dice implica che se il PD non fa una grande, veloce autocritica per imparare a costruire una politica molto più consapevole e propositiva, rischia. Il che, secondo da Empoli, genererebbe un grave danno per il paese e per la democrazia.

I motivi sono in parte globali e in parte specifici della condizione italiana. Riassumo con parole mie.

I motivi globali sono quelli che contrappongono la tecnocrazia al populismo. La tecnocrazia è quella emersa dalla vittoria iperliberista superfinanziaria degli anni Ottanta e che ha finito coll’assorbire anche i partiti di sinistra in una sorta di cultura dell’ineluttabile, una condizione nella quale tutto è scritto dalle immutabili leggi dell’economia e nulla resta davvero da fare alla politica: il suo compito è semplicemente togliersi di mezzo (Stati Uniti) o applicare politiche di rigore (EuroGermania). Il problema è che la superfinanza iperliberista ha creato un sacco di guai – generando a più riprese crisi abnormi, aumentando la distanza tra i ricchi e i poveri, banalizzando la cultura e le aspettative di larghe fasce della popolazione, pur creando le condizioni per uno sviluppo accelerato di una parte minoritaria dell’Occidente e soprattutto dell’Oriente – ma continua a far credere ai governi dell’establishment di essere l’unico pensiero possibile, aprendo la strada al contrario della tecnocrazia: il populismo raccoglie le rabbie molteplici di chi ha perso con le politiche tecnocratiche, di chi si sente ingabbiato nelle politiche tecnocratiche, di chi sente più l’ansia dell’ipercompetitività richiesta alle professioni attuali più che le opportunità che questa offre, di chi si lascia abbindolare dall’ipercritica dei partiti rancorosi di destra e di sinistra, di chi non vede altro che le difficoltà che i figli incontrano nell’inserirsi al lavoro, di chi vede la ricchezza degli altri come una povertà per sé, di chi non conosce più la strada per entrare nell’ascensore sociale. I populisti sono i leader che parlano al popolo saltando le élite tecnocratiche, raccolgono e catalizzano la rabbia per indirizzarla a favore di partiti spesso nuovi che prosperano dichiarando di voler abbattere qualunque cosa sia collegata all’establishment. E questo è un quadro che, per motivi diversi, alimenta Trump, Brexit, Le Pen, Putin, nazisti, fascisti, leghisti e altra bella gente.

I motivi italiani sono notevoli. L’Italia, per da Empoli, non a torto, è il laboratorio mondiale del populismo. Ha inventato populismi di tutti i tipi. Ha conquistato una leadership globale con il localismo leghista, con il giustizialismo, con la telecrazia del Tycoon che dice bugie e convive col conflitto di interessi, ormai copiata anche altrove. Ma grazie all’intuizione di Grillo e Casaleggio è andata ancora avanti. La rete del M5S è uno strumento straordinario. Funziona. Va compresa. Va presa sul serio. Perché crea un “partito algoritmo”, dice da Empoli, che consente ai suoi leader di presentarsi come la modernizzazione totale. Che si candida a prendere possesso della totalità del potere. E la tentazione totalitaria, per da Empoli, è la conseguenza di tutto questo. L’originalità del movimento sta proprio nella somma del calore sanguigno del leader carismatico e della metodica freddezza ipermoderna dell’internettaro co-fondatore che ha lavorato alla piattaforma organizzativa. Il programma – come del resto il reclutamento – non è il frutto di un’interpretazione della storia ma di una raccolta di pareri e voti in rete, con il correttivo della supervisione dell’animatore di tutto. Il che deresponsabilizza i rappresentanti eletti, trasformandoli in portavoce il cui unico scopo è quello di fare ciò che è stabilito dal metodo (e dal suo correttivo vivente). Il che consente al movimento di volere tutto e il suo contrario a seconda di come si muovono le sensibilità popolari: il populismo perfetto, in questo senso, totalmente autoreferenziale.

Idee che certamente faranno discutere. Ma Giuliano da Empoli non si limita a mostrare il pericolo che questo movimento diventi totalitario. Aggiunge alcune considerazioni su quello che dovrebbe fare l’alternativa: non inseguire le istanze populiste ma offrire una versione concreta e positiva della propria visione.

Per riuscire in questa trasmissione di una concreta visione positiva, il PD ha bisogno di una interpretazione della storia attuale. Alcune direttrici dello sviluppo che rassicurano dovrebbero essere ribadite. Il PD dovrebbe essere europeista senza se e senza ma: ma combattendo per far diventare l’Europa più calda e rassicurante. Dovrebbe credere nei diritti umani e nella loro protezione senza discussioni e senza fare compromessi con l’insaziabile ingordigia del mercato finanziario. Dovrebbe credere nel progresso tecnologico purché inteso come il frutto della progettualità umana, verso il cui bene va indirizzato. Giuliano da Empoli non sviluppa a lungo questa idea, ma si potrebbe – forse forzando – sintetizzare dicendo che il PD dovrebbe essere popolare non populista, competente non tecnocratico, impegnato non fanatico, elegante non formalista, intelligente non furbo, rispettoso non arrogante, innovativo non fuffarolo. Non il PD del “ma anche” di Veltroni, non “la ditta” di Bersani, non il PD divisivo del Renzi rottamatore: un partito che riparte dalle fondamenta positive della sua lettura della storia e ci lavora sopra. Cercando di includere.

A mio parere, questa evoluzione del PD sarebbe una sterzata rispetto alla tentazione di inseguire i populismi uscita recentemente da alcune espressioni antieuropee di alcuni suoi leader. Prenderebbe spunto dal successo di Macron, che però guida un movimento nuovo e non un vecchio partito tradizionale, seppure profondamente trasformato (a quanto pare il 50% degli iscritti del PD si è rinnovato tra il 2013 e oggi). Dovrebbe prendere anche spunto dal meglio dell’organizzazione del M5S: la rete non è un medium per fare propaganda, è un ambiente nel quale si sviluppa un dibattito e si evolve. E da qui si può imparare qualcosa soprattutto se si prende l’argomento in modo ancora più autentico.

In effetti, l’idea che il PD abbia qualcosa da imparare dal M5S può far sorridere chi coltivi, a torto, qualche senso di superiorità. Ma non dovrebbe. Siamo in un’infosfera che non funziona più come quella della televisione. Ci sono le echo-chamber, c’è la midiciale diffusione del fake, ci sono molte piattaforme che la gente usa e sono quasi tutte private. C’è la piattaforma dei M5S. Si può fare meglio, ma non certo negando che l’ambiente umano che emerge dalla rete è diventato importante. La qualità della vita sociale dipende anche dalla qualità dei progetti con i quali si fanno le piattaforme nelle quali le persone passano una grande parte del tempo.

Chi non critica il M5S dal passato ma lo vede come una struttura che in futuro sarà superata dovrebbe anche pensare a come far succedere questo superamento. Non c’è nulla di male a guardare alla tecnologia e alle piattaforme come un elemento di proposta positiva, per una vita civica più ricca e sensata. Certo, una piattaforma migliore di quella dei M5S è possibile. Potrebbe essere pubblica, potrebbe essere orientata a costruire informazione aperta e civica, potrebbe servire a modernizzare un processo di deliberazione inclusivo. Il PD ha introdotto le primarie e con questo si è dato una struttura identitaria, il M5S ha introdotto la sua piattaforma ottenendo un risultato identitario analogo e forse più continuativo. Ma il PD in teoria ha una sua funzione interpretativa, il M5S sembra non volerla se non come metodo. I partiti evolvono e imparano gli uni dagli altri. Il PD potrebbe migliorare ascoltando la logica della piattaforma. E facendolo forse sarebbe più competitivo, potrebbe affermare i valori in cui crede in modo più efficace e potrebbe contenere la credibilità degli attacchi alla struttura della democrazia. Forse, tenendo la barra più dritta, potrebbe addirittura influenzare l’evoluzione del M5S.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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