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Separati dalla pubblicità. Concentrati sui lettori. I giornali che ce la fanno

Dieci anni dopo abbiamo qualche conferma e qualche idea in più. È sempre più chiaro che:
1. Il giornale non è la sua carta
2. Gli editori tradizionali sono il cuore del problema
3. Il rapporto con il pubblico attivo è strategico

Inoltre sappiamo che:
1. Il giornalismo è il suo metodo
2. I giornali servono la comunità che cerca un senso
3. La pubblicità è un business tecnologico
4. Le notizie si trovano
5. La ricerca di qualità scarseggia

Nell’information overload esiste una domanda per il servizio di filtro. Questo può essere fornito automaticamente dagli algoritmi delle grandi piattaforme o semiautomaticamente dal lavoro di macchine e umani. Ma generato il filtro esiste anche una domanda di informazione-formazione che serve a migliorare le possibilità di crescita economica e qualità della vita sociale del lettore o fruitore. Questi mondi di senso nei quali gli autori e i designer possono realizzare un servizio utile stanno evolvendo e alcuni giornali – come alcuni editori librari e altre forme editoriali – stanno riuscendo a svolgere questa funzione e a farsi riconoscere capaci di svolgerla. Se riescono a trovare il giusto mix di prezzo e qualità del prodotto ce la fanno anche economicamente. Non è in alcun modo una questione di carta o digitale: ogni tecnologia serve al suo scopo per la comunità di riferimento, che è disposta a pagare per l’abbonamento o la lettura. The Economist, Le Monde, Financial Times sono ottimi esempi. E non a caso si stanno dimostrando capaci di uscire dalla crisi. Ma anche Politico sembra potercela fare. È chiaro che se ce la fanno è perché fanno un grande giornalismo, con metodo civico e grande autorialità, non troppo bizantinismo di design ma attenzione non esagerata ai nuovi linguaggi (Guardian).

I conti si fanno però aumentando l’investimento in qualità della ricerca che genera qualità dell’informazione e quindi fatturato in abbonamenti e vendita di accesso, e riducendo i costi di distribuzione, i costi di transazione, i costi della ricerca di pubblicità, i costi tipografici e così via. Soprattutto vanno ridotti i costi di innovazione: quei costi sottili che si pagano ogni volta che si vuole fare un miglioramento tecnologico o organizzativo e che sono resi altissimi dal conservatorismo dell’organizzazione che ritiene di essere ancora ai tempi in cui i giornali erano luoghi del privilegio. In pratica, si dovrebbero settare i costi, dolorosamente, sul ricavo in termini di abbonamenti. In questo modello le campagne pubblicitarie non sono escluse ma vanno definite come partnership a valore aggiunto per la generazione dello scopo comune: la crescita dell’informazione di qualità per la comunità.

Per tutti i giornali che invece restano legati all’idea di fare soldi con la pubblicità con articoli gratuiti la morsa di Google e Facebook diventa sempre più stringente. Questi assorbono oltre la metà del fatturato pubblicitario online e crescono. La pubblicità online è un business tecnologico. Al limite si producono articoli con l’intelligenza artificiale e si filtrano a base di algoritmi di banale personalizzazione per gli utenti. Il grande traffico e i grandi soldi vanno alle piattaforme. Che decidono tendenzialmente anche che cosa far vedere ai loro utenti. Agli editori resta poco margine. E il loro lavoro, salvo eccezioni, si trasforma in qualcosa di più simile all’entertainment che al giornalismo (Guardian).

Il terzo modello è quello del sostegno da parte della comunità o della beneficenza. Stile ProPublica, in un certo senso il Guardian, la vecchia RadioPopolare… Esiste anche questo modello e sarebbe sciocco non tenerne conto. È un modello più di economia circolare che va coltivato concettualmente e che può riservare sorprese importanti con l’innovazione sociale.

In tutti i casi, posto che il modello-giornale-entertainment-asfittico-pubblicitario non è da buttare perché può generare anche grandi momenti di informazione, ogni tanto, il modello del giornalismo civico, metodologicamente attento, orientato al pagamento da parte del pubblico, ha la possibilità di servire nel lungo termine a una comunità. Per questo occorre che evolva nella sua interpretazione della realtà. Perché si rivolge a chi vuole leggere per migliorare. E se la sua interpretazione della realtà non porta miglioramenti, prima o poi il riconoscimento comunitario viene meno. In una società in grande trasformazione, anche l’interpretazione della società da parte dei giornali deve evolvere: restare troppo legati ai poteri tradizionali, tanto per fare un esempio, è una condanna. I giovani riconoscono i giornali che danno risposte che possano essere collegate alla loro vita: non è tanto che non leggono la carta, è che non leggono ciò che non li riguarda.

Vedi anche:
Il giornale non è la sua carta (Problemi dell’informazione)
Un giornale non è la sua carta (EJO)
Jeff Bezos e la filantropia per i giornali
Brexit: la Chernobyl dell’ecologia dei media
Andreas Graefe. Il giornalismo automatico è credibile
Dati, informazione, conoscenza. Discernimento. Saggezza
Il giornalismo è il suo metodo. Postille all’ecosistema dell’informazione
In che ecosistema vive il giornalismo

dal blog.debiase.com di Venerdì, 25 agosto 2006

Chi ha ucciso i giornali?!?

L’Economist riporta una previsione secondo la quale i giornali spariranno entro il 2043. Io avrò 87 anni allora e l’avrò sfangata. Ma che cosa vedrò tra ora e quell’anno? Un triste declino, una gioiosa rivoluzione, o una sordida trasformazione?

Luca Conti, che aveva analizzato il rapporto tra giornali italiani e social network e che ne ha scritto per Nòva (il pezzo uscirà giovedì prossimo) fa un commento. Giancarlo Radice ne parla sul Corriere. I giornali italiani citati nel pezzo sono La Stampa e la Repubblica. Problemi e risultati positivi non mancano. Tutti i casi dei grandi giornali internazionali sono presi in considerazione con le loro difficoltà. L’esempio positivo è quello del norvegese Schibsted, perché fa il 35 per cento dei suoi profitti con le attività legate a internet. L’indicazione centrale mi sembra quella di fare un lavoro di qualità piuttosto che inseguire il puro “divertimento” informativo.

Per me tutto questo è il pane quotidiano da dieci anni. E’ un tema appassionante. E’ una gioia parlarne e leggerne. Mi sono fatto alcune ipotesi interpretative:

1. Il giornale non è la sua carta
2. Gli editori tradizionali sono il cuore del problema
3. Il rapporto con il pubblico attivo è strategico

In particolare:
1. Distinguere. La carta è un medium e non coincide col concetto di giornale. La carta ha la sua dinamica, i suoi costi e i suoi vantaggi. Finirà, forse, ma il giornale non finirà necessariamente con lei. Il giornale non è la sua carta: è la redazione, la testata, il rapporto che ha costruito con il suo pubblico, la sua visione, la sua interpretazione dei fatti, la sua competenza. E il giornale non è neppure il suo editore.
2. Gli editori tradizionali sono il problema centrale. Possono puntare ai profitti immediati e portare i giornali alla crisi del 2043, restringendo la loro strategia alla riduzione dei costi e alla difesa delle posizioni. Possono essere pessimi se non fanno che sfruttare le posizioni acquisite senza innovare. Ma possono anche funzionare se: guardano al rapporto di lungo termine con il pubblico, pensano in modo crossmediale, riorganizzano la raccolta pubblicitaria per i contenuti generalisti e sviluppano nuovi contenuti da vendere, investono sulla competenza delle redazioni, la credibilità delle testate, la relazione costruttiva con il pubblico, la libertà di interpretazione.
3. Lo sviluppo incontenibile del pubblico attivo è un’opportunità fondamentale. La strategia dei giornali, dei giornalisti, degli editori, si deve ridefinire in modo da tener conto che una relazione costruttiva con il pubblico attivo genera ricchezza e qualità. La distinzione dei ruoli non sarà messa in discussione da nessuno. Ma la collaborazione, la conversazione, l’apertura dei giornali, la consapevolezza delle qualità del pubblico attivo finirà per essere la chiave per far diventare gli anni che restano da qui al 2043 una simpatica rivoluzione. Il mondo dei blog è il primo laboratorio nel quale sviluppare questa innovazione.

Non sarà per tutti lo stesso. I giornalisti e i giornali avranno molto da imparare. Ma questo è l’unico motivo per cui è bello fare il giornalista: si lavora per imparare.
ps. Ma, alla fine, chi ha ucciso i giornali? Chi pensa di possedere il pubblico come il feudatario possiede i servi della gleba. E chi pensa che il pubblico sia uno sciocco branco di guardoni, perditempo, interessati sono all’irrilevante. E chi pensa che i giornali siano business e non servizio. Non c’è un assassino. C’è un’associazione a delinquere.

giornali, giornalismo, editoria

5:04:13 PM comment

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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