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Un nuovo inizio nel 2021. E la formazione di una comunità informata /3 – Modelli economici

Inizio d’anno di riflessioni e buoni propositi. Tra la fine e il principio sono uscite la prima e la seconda puntata di questa serie sul rapporto tra le strutture dell’informazione e la formazione della comunità. Questa terza parla dei modelli economici. Ma comincia, come come la seconda, da un messaggio ricevuto.

«Queste analisi si potrebbero trasformare in azione politica?» domanda un amico. Prima di rispondere riprendiamo le pagine del Rapporto Censis 2020 dedicate ai media. C’è un passaggio attinente, in un certo senso. Il rapporto fa notare come nell’anno della pandemia la tecnologia digitale abbia conquistato ampiamente il tempo delle persone in clausura, come l’informazione sia stata cercata più del solito (e «persino i quotidiani hanno ripreso a vendere copie») e come la televisione si sia trasformata in un’entità video “transmediale” editorialmente frammentata e accessibile attraverso molti dispositivi diversi senza necessariamente un palinsesto. Il Censis osserva che si è accentuata la disintermediazione digitale, con una «compenetrazione tra la trasmissione dei messaggi e la soluzione dei problemi», mettendo in crisi «le tradizionali distinzioni poste tra i processi di formazione dell’autocoscienza personale e collettiva e la loro diffusione attraverso gli strumenti della comunicazione». Passaggi che riprenderemo anche nella prossima puntata, ma che cui importano soprattutto per la conclusione: «Viviamo infatti nell’era biomediatica, in cui i media non sono più un tramite tra le cose, ma sono essi stessi le cose». Parole sulle quali si ritornerà, appunto. Ma che impostano anche la risposta all’amico che chiede della politica. Indubbiamente questo concetto di era biomediatica ricorda l’idea di “biopolitica” di Michel Foucault: il controllo dei corpi umani – come società e come specie – operato nel quadro del neoliberismo convince gli occidentali a ritenere che le forze dell’economia vadano svincolate dalle costrizioni della politica e che la politica si debba attenere al suo compito di lasciare agire il sistema decisionale che si dimostra naturalmente migliore e che, sebbene sia chiamato “mercato”, in realtà non è altro che il potere del capitalismo. Idee che Foucault insegnava al Collège de France nel 1979, proprio nel momento in cui l’economia spudoratamente capitalista di Milton Friedman diventava programma politico operativo con Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Oggi tutto questo si è smaterializzato. Il filosofo Byung-Chul Han sostiene che alla società attuale non è più applicabile il paradigma della biopolitica, bensì quello della “psicopolitica”: il potere non disciplina più i corpi ma plasma le menti. Il potere del capitalismo seduce senza comandare, convincendo l’individuo occidentale di essere solo di fronte alle proprie scelte, portandolo infine a considerare come propri i bisogni del sistema. Ma come fa a compiere questa operazione senza indirizzare lo sviluppo capitalistico dei media, compresi i media digitali? Il pensiero unico che ha condotto dalla biopolitica alla condizione biomediatica va rivisto in modo critico per liberare l’immaginazione a cercare pensieri alternativi. La politica neoliberista è stata impostata prima nelle menti per poi essere lanciata a conquistare le istituzioni. Se ci fosse tempo, sarebbe importante lavorare a livello culturale per mettere in discussione i limiti mentali che il neoliberismo ha inculcato nelle società occidentali e aprire l’immaginazione a nuove opportunità: questa sarebbe politica. Ma c’è tempo?

L’alleanza indiscussa ma discutibile tra finanza e tecnologia dell’informazione

Le dinamiche socio-economiche degli ultimi quarant’anni sono state dettate dall’ideologia neoliberista che è stata scelta dal capitalismo per espandere lo spazio di crescita delle sue istituzioni finanziarie a scapito delle istituzioni statali in Occidente. Mentre, in Oriente, un percorso paradossalmente analogo era perseguito con successo del Partito Comunista cinese nella costruzione di un modello di sviluppo alternativo all’accoppiata tradizionale democrazia-mercato. In entrambe queste tendenze, vale il detto di Deng Xiaoping: “Non importa che il gatto sia bianco o nero. Importa che prenda i topi”. L’informazione è stata asservita allo scopo di motivare l’ineluttabilità di questi processi.

L’ineluttabilità era però anche il fondamento narrativo della tecnologia digitale. La “legge di Moore” – inquadrata nell'”ideologia del Progresso” che stabilisce che la nuova versione della tecnologia è sempre migliore della precedente – garantiva che il futuro era necessariamente migliore del passato. E, poiché il futuro arriva esponenzialmente, il che è poco comprensibile, occorre affidarsi alla tecnologia se non la si capisce. Questo ha distorto la realtà digitale all’interno di uno spazio-tempo irreale, sulla scorta di un mito fondativo della cultura digitale. Il mito fondativo è riconoscibile nell’impostazione proposta da Claude Shannon nel suo paper fondamentale “A mathematical theory of communication”. Shannon osserva che il problema degli ingegneri della comunicazione è trovare il modo di portare l’informazione dal punto A al punto B con relativa precisione. «Spesso» dice Shannon «i messaggi hanno un significato». Ma il tema semantico del significato e del contesto nel quale si comprendono i messaggi è «irrilevante per il problema ingegneristico» dice Shannon. Perché i sistemi che gli ingegneri devono produrre vanno pensati in modo che possano operare al servizio di qualsiasi messaggio, anche imprevedibile all’epoca della progettazione. Ancora un gatto bianco o nero che prende topi.

Il capitalismo liberista e il mondo ingegneristico, insomma, non si trovavano in condizioni culturali troppo lontane: per entrambi tutto andava bene se il sistema funzionava. L’alleanza tra capitalismo e tecnologia, fondata sulla capacità della finanza di moltiplicare le risorse, ha distorto il rapporto tra mezzi e fini, abolendo la discussione sui fini e concentrando l’attenzione sui mezzi. Anche i mezzi di comunicazione. Se i mezzi crescono, qualunque fine sarà probabilmente soddisfatto. Le conseguenze di questa abolizione di fatto della discussione sulla giustizia dei fini, in questo modo di pensare, si sarebbero affrontate dopo.

Chi suggeriva di pensarci prima, alle conseguenze, non faceva che rallentare il progresso. Gli europei sono stati spesso colpevolizzati per questa loro tendenza a “pensarci prima”.

In questo contesto, gli imprenditori che per antonomasia si occupano di significati, gli editori, si sono lasciati attrarre dalla dinamica capitalistica in modo tale da privilegiare il loro risultato economico rispetto alla qualità del loro servizio alla società, in un’ottica di breve termine. Hanno scelto la via più facile per la monetizzazione, quella della raccolta pubblicitaria. Ma la pubblicità li ha attirati nel suo gorgo e poi li ha abbandonati. Nel corso di quel processo, gli editori hanno lasciato ad altri il compito di collegare la tecnologia alla gestione della conoscenza e non hanno innovato. Le nuove piattaforme che organizzano l’informazione e le relazioni tra le persone sono cresciute alla velocità dei media digitali, mentre gli editori restavano ancorati ai loro ritmi blandi dell’analogico, tutt’al più addolcito con una superficiale spolverata di bit. Quando la crisi ha cominciato a mordere hanno accettato qualsiasi cosa potesse sostenere una monetizzazione non troppo difficile da concettualizzare. E hanno perso la loro identità, avviandosi a un declino generalizzato, con poche straordinarie eccezioni che dimostrano come il declino non fosse un destino già scritto.

Nell’ebollizione di novità digitali, gli autori si sono trovati a scegliere tra il progetto di coltivare un servizio autentico e la pratica di costruire personaggi adatti al contesto mediatico emergente. Le sorgenti documentali e i metodi per alimentare l’informazione di qualità e il senso critico hanno corso il rischio di essere posti in secondo piano rispetto alle dinamiche autoreferenziali che servivano al successo dei personaggi. Il rischio è diventato pericolo molto presto. L’esperienza della televisione commerciale che aveva fatto qualcosa di molto simile anche se meno generalizzato era passata invano. Anche sulle piattaforme digitali emergenti, qualsiasi comunicazione era buona purché servisse alla notorietà.

Un sistema dell’informazione senza punti di riferimento che non fossero soltanto il successo dei messaggi e l’accumulazione di denaro, in un contesto di gestione della conoscenza affidato a banali algoritmi, ha contribuito a far crescere nella società relazioni autoreferenziali, parcellizzazioni del discorso pubblico, relativismo metodologico nel discernimento dell’informazione, polarizzazione ideologica, emotiva, valoriale. Influencer, manipolatori, criminali e poveri di spirito si sono trovati insieme a collaborare nella costruzione distruttiva di una rete biomediatica che si affiancava al nobile e liberatorio progetto internettiano: tutto questo mentre i media tradizionali non riuscivano a maturare una consapevolezza tale da metterli al riparo dal tentare di giocare allo stesso gioco degli influencer più o meno politically correct.

Il tutto ha generato vari paradossi. I ceti popolari hanno deciso di appoggiare le forze politiche che più di tutte favorivano la crescita disperante della diesguaglianza economica. Il ceto medio si è trovato a sostenere il peso di una società che non ne sosteneva i valori. L’ascensore sociale si è bloccato proprio mentre l’ideologia dominante parlava di meritocrazia. La convinzione di poter finalmente accedere alla verità grazie all’inclusività dei media digitali ha reso possibile un’enorme diffusione di falsità. E così via. In una sequela di perdite di orientamento senza particolari precedenti. Molti prodotti degli editori tradizionali sono improvvisamente apparsi incapaci di comprendere la realtà. Mentre semplicemente sui media digitali si stava creando una nuova realtà, a uso e consumo del nuovo potere.

Messi alle strette gli editori hanno lasciato che fiorisse una quantità di tentativi alternativi. I modelli di business hanno creato paradigmi editoriali diversi e divergenti. Le aziende basate sulla pubblicità si sono differenziate drasticamente da quelle che vendono abbonamenti. Le forme del servizio informativo finanziate dal non profit hanno trovato le loro nicchie più o meno grandi, ma certamente maggiori di quelle dell’epoca precedente. I servizi pubblici, pagati con le tasse, a sostegno del broadcast di stato o del pluralismo dei giornali di partito non si sono molto adeguati alla nuova situazione, anche se avrebbero potuto. La moltiplicazione dei modelli però ha dimostrato che la strada dell’informazione di qualità, in relazione alla formazione di una comunità informata, non è chiusa. Anche perché tutto questo avviene mentre si assiste a una nuova accelerazione della tecnologia e a una nuova consapevolezza politica.

Nella prossima puntata: ci sono spazi per una nuova informazione di servizio di qualità?

La serie:
Formazione di una comunità informata.
Puntate:
Introduzione
Scenari
Economia
Editoria
Strategie

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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