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Il neo-liberismo era non-liberismo. Il nuovo paradigma da definire. Appunti a valle del Festival della Tecnologia di Torino

Dopo il Festival della Tecnologia, ecco alcuni appunti su una delle questioni sistemiche tra quelle evocate nel corso della riuscita manifestazione torinese. Il rapporto tra il sistema di incentivi del vecchio paradigma neo-liberista ancora imperante e le possibilità di emersione di un nuovo paradigma. Solo appunti.

Gli occidentali si sono organizzati per almeno 40 anni intorno alla convinzione che il sistema propugnato dal neo-liberismo fosse quello che otteneva i migliori risultati economici possibili e che poteva mantenere la promessa di un progresso sociale e civile duraturo e giusto. Come osserva Joseph Stiglitz, oggi, dopo la crisi del 2007-2008, è chiaro che quella promessa non è stata mantenuta. È tanto chiaro che è legittimo domandarsi come sia mai possibile che resti così difficile demolire il progetto neo-liberista e adottare un’altra strada.

Sembra di essere in un limbo nel quale il passato è sbagliato e il futuro è indefinito. Che cosa rende credibile una convinzione sistemica e come si può sostituire con una nuova convinzione migliore? Qual è la strada per progettare un sistema migliore? Perché soltanto dire una frase del genere sembra sconfinare nell’utopistico e nel velleitario? In sintesi possiamo dire che:
1. un’ideologia radicata è difficile da sostituire; è come un sistema operativo: l’effetto-rete incolla un’organizzazione alle soluzioni che ha adottato in passato e crea un lock-in che si può superare solo con un enorme sforzo di coordinamento per allineare al nuovo un’enorme quantità di elementi che funzionano secondo il vecchio sistema
2. è del tutto evidente che l’Occidente fatica a delineare una vera alternativa: e in mancanza di un’alternativa la convinzione precedente continua a funzionare
3. infine, non tutti i cambiamenti sono gradevoli; la convinzione neo-liberista ha una funzione sociale che può essere svolta anche da nuove ideologie compatibili: vediamo i primi segnali di questo fenomeno e sono segnali molto neri.

Occorre mobilitare le coscienze, occorre unire le organizzazioni che non si sono mai piegate al conformismo e quelle che hanno accettato i compromessi, occorre sincronizzare tutte le forze che restano votate al progetto di una società migliore: non è facile, non è impossibile.

Che cosa è successo?

Il neo-liberismo ha fallito in tutte le sue promesse, salvo quella non dichiarata: è riuscita a rendere i ricchi molto più ricchi, a scapito del ceto medio e soprattutto della capacità dei poveri di salire nell’ascensore sociale, di vivere una vita dignitosa, di sperare di uscire dal gorgo della mera sopravvivenza.

La promessa del neo-liberismo si fondava sulle analisi piuttosto fantasiose secondo le quali la “mano invisibile” del mercato funzionava da sistema informativo decentrato e rendeva il sistema concorrenziale, meritocratico e capace di determinare la migliore allocazione delle risorse possibile. Ma quella promessa veniva usata per coprire l’attività e gli interessi del capitalismo più rapace che con il mercato non ha nulla, proprio nulla, a che fare. Conduceva a policy di liberalizzazione, privatizzazione, arretramento del ruolo della politica e trasformazione dello stato in un sistema che doveva estendere il fuorviante modello del mercato a ogni ambito della società, compresi i servizi pubblici, le relazioni di comunità, le istituzioni culturali, il welfare: una civiltà del mercato ne era la teorica conseguenza, come dice Evgeny Morozov, per servire a un programma fortemente integralista e monomaniacale di potere del capitalismo. Friedrich August von Hayek che aveva teorizzato il mercato come sistema informativo perfetto e decentrato poteva anche ammettere forme di welfare state di stampo socialdemocratico, ma i suoi successori sulla strada del neo-liberismo, come Milton Friedman o Francis Fukuyama, o come Margaret Thatcher o Ronald Reagan, hanno previsto e condotto a termine la demolizione del progetto del welfare state ed eliminato dal dibattito il tema della comunità. Joseph Stiglitz ha dimostrato che il modello di mercato efficiente praticamente non esiste nella realtà. La storia si è incaricata di dargli ragione. Ma il neo-liberismo è riuscito a far credere nell’utopia del mercato e con essa ha coperto le attività del capitalismo.

Insomma: un’idea che in Occidente ha governato gli stati, le multinazionali e le coscienze per 40 anni sulla base della promessa – ripetiamo – che le sue conseguenze avrebbero portato vantaggi a tutti, invece, ha reso ricchissimi i pochi potenti dell’economia globale, ha impoverito il ceto medio e creato un nuovo sottoproletariato senza prospettive, formato da giovani, esclusi, espulsi.

Che cosa sta succedendo?

Dalla fine della credibilità della promessa neo-liberista, con la crisi sistemica del 2007-2008, è emersa un’alternativa che ha bucato nella costruzione del consenso attraverso una strategia populista e apparentemente anti-establishment, che sta rapidamente evolvendo – grazie all’esempio americano – in una soluzione autocratica, autarchica, nazionalista, razzista. Vince la battaglia del consenso con quei valori ma opera in base a politiche altrettanto favorevoli ai ricchi e sfavorevoli ai poveri.

Ancora una volta uno spiazzamento concettuale. Prima si sostituiva l’immagine del mercato al bieco interesse dei ricchissimi capitalisti. Ora si sostituisce la soddisfazione della rabbia razzista allo stesso bieco interesse degli stessi ricchissimi capitalisti.

Poiché è già successo che liberisti indeboliti accettassero di farsi governare da autoritari razzisti e poiché la storia non si ripete mai nello stesso modo, si potrà forse evitare di qualificare l’alternativa che oggi sta prendendo il sopravvento in molti paesi occidentali come una forma nuova di fascismo, una sorta di neo-fascismo. Ma anche l’idea che questa analogia storica non sia realistica resta tutta da dimostrare.

È vero che i vecchi ricchi e colti sostenitori della tecnocrazia neo-liberare faticano ad accettare “antropologicamente” i sostenitori dell’alternativa autarchica-razzista-autoritaria. Ma di fronte al timore di veder emergere un sistema che davvero facesse emergere forme di concorrenza più leale in Occidente e soprattutto pensando al rischio di soccombere di fronte alla concorrenza asiatica, i neo-liberali più consapevoli del loro rapporto malato con il capitalismo rapace tendono a passar sopra alle differenze di cultura e sofisticazione intellettuale che li separano dai cosiddetti populisti, sovranisti, neo-fascisti. L’essenziale è difendersi come ceto, alla fine dei conti.

Qual è l’alternativa?

La soluzione favorevole ai valori dell’inclusione, della giustizia sociale, del progresso civile, della tolleranza, dove si trova? Nella vecchia sinistra emergono soluzioni apparentemente stantie soprattutto nel continente europeo, mentre tra gli anglosassoni ci sono proposte piuttosto estreme come dimostra l’approccio colto ma radicale di Elizabeth Warren candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti o il vagamente confuso ma certamente popolaresco “massimalismo pragmatico” di Jeremy Corbyn, leader del Labour Party inglese. Da dove esce l’alternativa vera?

Il nuovo paradigma orientato allo sviluppo umano per riequilibrare le storture, la polarizzazione, la concentrazione di poteri e di ricchezza ereditata dal neo-liberalismo e che sarà inevitabilmente accentuata dal neo-fascismo, deve emergere dai progetti che possono affrontare le questioni della sostenibilità, della qualità della vita, della felicità, del rispetto, dell’educazione. Può emergere solo in un paradigma capace di interpretare con serietà il carattere del presente momento storico e delle sue prospettive. Dando risposte che non siano promesse fittizie: il che significa che deve basarsi su una analisi della realtà. Probabilmente andrà superata la questione dell’alternativa tra mercato e stato, probabilmente dovrà essere rivalutata la dimensione della comunità. Sapendo però che la dimensione di comunità non scala facilmente. Eppure la nuova alternativa deve avere impatto. La sua forza sarà maggioritaria solo aggregando molte forze attive e grandi istituzioni esistenti, indebolite dalla mancanza di visione, ma orientate agli obiettivi giusti.

Come aggregare? Una strada è chiaramente quella di superare la classica analisi dei trade off, cioè delle scelte comunque dolorose che il presente impone per aggiustare qualcosa a scapito di qualcos’altro. I trade off prima o poi dividono. Le forze del progresso umano non possono permettersi di dividersi. Una modalità di aggregazione è sempre stata quella di spostare nel futuro le soluzioni. Ma questa volta non si può compiere questa operazione appoggiandosi a false promesse come quelle neo-liberali e neo-fasciste.

Come si fa? La dimensione di comunità non scala, ma può essere messa in condizioni di avere impatto fortissimo. Il cambiamento climatico non si cancella, ma si può costruire un insieme di soluzioni che lo rendano meno doloroso e magari più vivibile. La polarizzazione sociale e la povertà si possono affrontare e superare. La divisione culturale tra chi comprende il cambiamento e chi lo subisce si può colmare. La promessa non è in un’ideologia ma in una pratica. Una pratica chiamata innovazione.

Non un’innovazione votata alla riproduzione in forme nuove del neo-liberismo che la finanza rapace ha trovato il modo di sostenere a Silicon Valley. Evgeny Morozov ha ben spiegato tutto questo. Non un’innovazione tutta centrata sulle figure del consumatore o del finanziere. Ma un’innovazione centrata sugli obiettivi dello sviluppo umano e sulla mitigazione del disastro ambientale, sociale e culturale ereditato dai due secoli di antropizzazione e produzione disattenta alla sostenibilità.

Le premesse per riuscire in questa impresa non si esauriscono nell’innovazione, ma certamente si devono giovare dell’innovazione. A questa occorre si saldi uno stile, una cultura, una modalità concettuale profondamente diversa da quella della fiction neo-liberista e neo-fascista.

La vera innovazione sarà cercare la credibilità dicendo le cose come stanno, cercando visioni che si possano verificare, non manipolando le coscienze. Questo è il compito più difficile. Come ogni innovazione, anche quella che porta alla sostenibilità e alla dignità umana ha conseguenze complesse. Studiarle non significa nascondere quelle che possono essere problematiche ma studiarle perché possano essere corrette nel tempo. In ogni caso, solo conoscendo la complessità si potranno applicare policy di sistema che abilitano quelle innovazioni.

La dimensione di comunità avrà impatto se abilitata dall’innovazione. L’innovazione avrà un senso se abilitata dalla dimensione di comunità. La strategia avrà successo se aggregante e sostenuta da sostenitori di valori e interessi diversi accomunati dalla volontà autentica di risolvere i problemi in un quadro di rispetto, per l’umanità e per il pianeta.

Nella foto, Piazza Castello a Torino

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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