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Tra il 25 aprile e il 1 maggio. La critica, il conflitto e la possibile vittoria

Tra il 25 aprile e il 1 maggio, mentre faticosamente si avvia il percorso per superare la crisi delle clausure, il criterio per riprogettare l’Italia resta poco chiaro. Gioire delle nostre “fortune” è insufficiente. Pensarsi vittime dell’ingiustizia è fuorviante. Progettare il conflitto è sensato se lo si può vincere. “Perché gli italiani non si ribellano?” ci si chiedeva in giro per il mondo nel 2011. Ma chi sono gli italiani che dovrebbero farlo, con quali mezzi e con quale analisi della realtà?

Non c’è armonia in una condizione ingiusta, brutta, stupida: non c’è pace senza sviluppo, libertà, senso del bene comune. Ma in quelle condizioni può anche mancare il conflitto e la pressione nei confronti del potere? Può essere che un paese viva in una condizione sbagliata che però, invece di correggerla, la subisca?

La domanda è: l’Italia è in queste condizioni?

Nel 2011, in settembre, su questo blog ho scritto un pezzo in inglese intitolato: “The case for an Italian rebellion. Why it doesn’t happen. And what could happen”. Aveva avuto un certo impatto e ho raccolto le risposte in questo altro post: “Perché gli italiani non si ribellano. Che altro possono fare…”.

Era l’epoca delle primavere arabe e dall’estero ci si domandava perché gli italiani non facessero come i tunisini nei confronti della loro versione di Ben Ali. Le assurdità perverse che il governo italiano di allora stava commettendo sembravano mettere in gioco l’economia e la democrazia, davano l’impressione ad alcuni che una ribellione potesse essere necessaria. Si è visto come è andata. Nei dieci anni successivi è successo di tutto. L’Europa ha “aiutato” gli italiani a cambiare governo, proprio alla fine del 2011, senza passare dalle elezioni. Il governo di Mario Monti ha affrontato la questione più urgente, quella della risposta alla speculazione finanziaria. Alle elezioni successive, la potenziale “ribellione” italiana ha preso la forma dell’avanzata del Movimento 5 Stelle. Il governo è andato prima a Enrico Letta, poi a Matteo Renzi, infine a Paolo Gentiloni. Le oscillazioni del sistema, in quella legislatura sono state contenute: l’attivismo di Renzi ha assorbito tutte le energie di chi aveva voglia di dibattere; le scelte di Letta e Gentiloni hanno avuto effetti significativi per la tenuta del sistema e la ripresa economica; ma la popolazione non è uscita dal loop ribellista. Alle elezioni successive, la vittoria dei 5Stelle, il governo con la Lega, poi il governo col Pd e alla fine, in piena pandemia, il ritorno di un governo forte e non eletto, con Mario Draghi premier.

Perché ci sia una vera ribellione, con le piazze piene di gente, per ottenere un cambiamento radicale di politica, occorre che ci sia un tappo istituzionale molto fermo. L’instabilità al vertice in Italia ha sempre reso inattuale una ribellione. D’altra parte, il continuo cambiamento al vertice della Repubblica con l’alternanza infinitamente ripetuta di momenti di speranza e successiva delusione non poteva che alimentare lo scetticismo, che è un ottimo antidoto contro la motivazione dei potenziali ribelli.

Insomma, per una ribellione occorrono alcune condizioni: ci vuole una forte motivazione, sono necessari strumenti facili da adottare per ribellarsi, deve esserci un motivo immediato e cogente che spinge a decidere che il momento per la ribellione è adesso. In Italia, le motivazioni sono stemperate dalla molteplicità dei sistemi di interesse e dallo scetticismo di fondo di una popolazione che ha visto tantissimi cambiamenti e altrettante delusioni. La ribellione dal punto di vista tattico è anche abbastanza difficile: le piazze italiane sono tante, anche se i mezzi digitali le uniscono più facilmente di anni fa, mentre la scarsa qualità e incisività delle istituzioni, si direbbe, contribuisce a rendere complicato riconoscere quali obiettivi sono i più utili per i ribelli. Infine, in un contesto tanto instabile, non sembra mai giunto il momento giusto per la ribellione. Il mantra gattopardesco “cambiare tutto per non cambiare nulla” definisce ancora la più efficace strategia di mantenimento del sistema di potere che l’Italia è riuscita a sviluppare.

Ma occorre anche parlarsi chiaro. Se pure è vero che l’Italia è un paese che ha un gran bisogno di cambiamento, occorre domandarsi in profondità quali modifiche siano prioritarie e quali siano gli strumenti per ottenerle. È insopportabile pensare che non ci sia un modo per contribuire a migliorare un paese che ha tanto bisogno di risolvere i nodi strutturali che rendono la vita tanto difficile ai giovani, alle donne, alle persone sole, alle persone che vivono in povertà; che rendono la vita tanto facile agli evasori fiscali, agli imprenditori del “nero”, ai politici e burocrati corrotti, alle organizzazioni criminali; che rendono così stabile un sistema di potere culturalmente arcaico, micidialmente conservatore, strutturalmente formalista, ridicolmente provinciale.

È insopportabile che tutto questo venga sopportato per cinismo, per stanchezza, per scetticismo per ignoranza e per mancanza di alternative. È insopportabile che al sistema di potere riesca con tanta facilità a perpetuare sé stesso senza modificarsi nella sostanza.

È anche insopportabile ascoltare il lamento di chi critica tutto questo senza trovare una modalità di passare all’azione. È insopportabile tutto questo eppure viene sopportato.

Che cosa può effettivamente avvenire?

La domanda si sdoppia, a questo punto. Che cosa si può prevedere che avvenga e che cosa si può fare per cambiare le tendenze?

È improbabile, si diceva, che la critica si trasformi in ribellione. Tenendo presente che la ribellione ha bisogno di persone che credono di poter cambiare le cose, che sanno come farsi sentire, che hanno chiaro chi sia il nemico, che pensano di poter interpretare una vasta parte dell’opinione della popolazione e che ritengono di poter vincere, si può ritenere improbabile la ribellione.

Del resto, se avesse una visione, la ribellione potrebbe diventare una rivoluzione. Se ne deduce che anche la rivoluzione è improbabile.

È probabile che almeno ci sia una radicale maturazione culturale?

Questo almeno non è improbabile. Anche se richiede i suoi tempi. La connessione internazionale degli imprenditori che hanno le performance più importanti, la spinta dell’appartenenza all’Europa sul sistema decisionale, la crescita dei giovani che hanno effettivamente sensibilità più generose nei confronti dell’ambiente e della società, lo sviluppo della voce delle donne che dimostrano di saper spingere per il cambiamento, la disponibilità di media più malleabili per nuovi progetti di accesso alla conoscenza e di dibattito di qualità, sono altrettante motivazioni di una maturazione culturale.

Lo svelamento di nodi strutturali sui quali c’era meno consapevolezza prima della pandemia – il sistema sanitario, il sistema educativo, l’accesso alla cultura, l’organizzazione del lavoro – ha dato luogo alla consapevolezza di obiettivi chiari da riformare. Le scelte forti che vanno prese per le grandi sfide del cambiamento climatico, della crescente povertà e della disuguaglianza, dell’invecchiamento della popolazione, il rischio di impoverimento culturale, possono far convergere l’attenzione della popolazione verso la stessa pagina delle priorità. E aprire dibattiti finalmente costruttivi. Preludio di progetti che finalmente liberino le forze creative degli italiani.

Tutto questo nasce dalla critica. Passa per il cambiamento. Arriva a una società preferibile. Si può pensare che ci voglia troppo tempo per tutto questo: ma la realtà è che se non si fa strategia non si ottiene niente altro che una confusa serie di cambiamenti apparenti seguiti dalla delusione reale. Occorre impegnarsi: ma anche avere un’idea di come vincere.

Su questo occorre cambiare rispetto al passato. Negli anni Settanta molti italiani si sono immolati per testimoniare le loro idee, mentre strategie oscure alimentavano la tensione per rafforzare il potere. Fare le vittime e perdere non ha avuto senso. Dopo di allora la vittoria dell’establishment è stata netta. Ma i problemi si sono aggravati.

Non c’è ricetta facile. Ma il primo passo è connettere la società in un dibattito libero e informato. Le idee da qualche parte ci sono, ma vanno connesse alle persone. Il metodo per farlo diventa il terreno sul quale si può aggregare un’azione riformatrice. Non per mero ragionamento: per l’emozione di trovare una strada che possa curare la paralisi. Non sulla scorta di un vecchio motto superato: “il fine giustifica i mezzi”. Ma all’insegna di un pensiero gandhiano di importanza inesauribile: “Il fine è nei mezzi come l’albero nel seme”.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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