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Gli occhi dell’umanità

Questo post prende spunto da due letture:
– Mauro Carbone, Des pouvoirs del l’archi-écran et de l’idéologie de la “transparence 2.0”, in Des Pouvoirs des écrans, sous la direction de Mauro Carbone, Anna Caterina Dalmasso et Jacopo Bodini, éditions Mimésis, 2018
– Simone Arcangeli, L’occhio della macchina, Einaudi 2018

L’estetica

Mauro Carbone, filosofo che insegna a Lione, traccia una via estetica per l’esplorazione della società avviluppata dalle conseguenze della tecnologia che si esprime nello schermo: la filosofia della percezione lo conduce a porsi domande fondamentali sul senso di quello schermo. E sul suo potere.

Il potere dello schermo, il potere che emerge dal dispositivo – nel senso persino troppo largo che Michel Foucault dava a questa parola – che lo schermo attua e sintetizza, si esercita per via estetica.

Come in ogni ricerca sulla percezione, anche nell’analisi dello schermo si trova l’ambiguità del “dispositivo” che mostra e nasconde contemporaneamente. E nell’epoca digitale mette ciascuno nella condizione di vedere ed essere visto. La scelta di ciò che è visibile e ciò che non lo è diventa il potere dello schermo.

Ed è ormai chiaro che l’istituzione che esercita il potere è la piattaforma.

Come nella scrittura la scelta su quello che era importante scrivere era un’operazione di potere, allo stesso modo nella piattaforma quello che è importante non è ciò che ogni utente ritiene di comunicare con la scrittura o qualche altro oggetto visuale, ma ciò che l’algoritmo ritiene che sia importante, il che conduce a osservare che il potere è nella scrittura dell’algoritmo. Il progetto della piattaforma e la scrittura del software che la fa funzionare, con tutto il dispositivo di significati e regole che questa operazione si porta dietro, assorbe l’attenzione e influenza le scelte giorno dopo giorno.

Il potere dell’algoritmo e dunque il potere di chi guida le grandi piattaforme istituzionalizzate però non è mai fermo, come del resto nulla si arresta nell’evoluzione accelerata della rete. E del resto, non si può dire che chi guida le piattaforme non sia a sua volta guidato: dai suoi pregiudizi, dalla sua ignoranza, dalla sua avidità o dagli interessi dei clienti, dei finanziatori, degli analisti finanziari, degli stessi utenti e degli sviluppatori di applicazioni che girano su quelle piattaforme. Le piattaforme esistono in quanto luoghi di incontro: se fossero scolpite solo dalla visione dei loro costruttori non le frequenterebbe nessuno.

Questo, appunto, è un dispositivo. Un complesso insieme di punti di vista, dinamiche, effetti collaterali e dinamiche culturali, economiche, politiche, sociali, che si sintetizza in una struttura come la piattaforma.

Le macchine

Ma questo pone il problema dell’evoluzione della percezione. Perché le macchine che hanno schermi sono un costrutto unico con le macchine che hanno occhi. Non è che lo schermo finisca dove cominciano gli occhi analogici che lo guardano. In realtà, si connette a telecamere e computer e tastiere e software che sanno imparare a classificare, nascondere, rendere visibili gli oggetti della realtà. In parte secondo logiche che – se magari sfuggono agli utenti – sono ben chiare ai costruttori. In parte invece non perfettamente note neppure ai costruttori, almeno secondo la teoria della “scatola nera” che ritiene il “deep learning” capace di ottenere dei risultati ma non di spiegare il percorso che lo conduce a raggiungerli.

Gli occhi delle macchine sono l’oggetto dunque del lavoro di Simone Arcagni, storico delle comunicazioni, che spinge a superare l’esperienza dell’individuo che guarda lo schermo. Cita Régis Debray che parla di una videosfera che cela il reale sotto le sue immagini attraenti, si richiama a Marshall McLuhan quando parla dei media come sistema nervoso esteso, per arrivare a Gene Youngblood che suggerisce e di osservare la rete dei computer come il sistema nervoso dell’insieme dei cervelli degli umani, che abilità l’esistenza di un’umanità dotata di una vista e di un pensiero che va molto oltre ciò che possono fare gli occhi e i cervelli degli umani.

A questo punto la riflessione filosofica e la storia tecnologica tendono a interrogarsi sulla propria evoluzione nel contesto in cui la biologia, le neuroscienze, e la stessa fisica si pongono come discipline necessarie alla conoscenza dell’umano. Se la medicina sembra fermarsi alla classificazione delle parti anatomiche e alle protesi tecnologiche per ottenere nozioni pratiche sulle loro funzioni e disfunzioni al fine di “riparare” il corpo individuale come se fosse una macchina, oggi sono la biologia, le neuroscienze e la fisica a indagare intorno al funzionamento della sostanza vitale, energetica e materiale della quale è fatta l’umanità. La convergenza della ricerca filosofica, storica e scientifica è ineludibile in un mondo nel quale l’umanità sta prendendo coscienza di aver perduto la condizione di centro dell’universo che era convinta di essere chiamata a ricoprire fino a qualche secolo fa.

La trasparenza

In questo contesto, la tecnologia digitale tende a porre in modo ben diverso da quanto ci si potrebbe aspettare la questione della trasparenza.

La trasparenza fa parte delle precondizioni di funzionamento del contesto iperliberista: solo se tutti gli operatori sono perfettamente informati si può avere concorrenza perfetta, meritocrazia, ottima allocazione delle risorse. D’altra parte la trasparenza è anche al centro delle ideologie social-populiste che riescono a sovvertire le tecnocrazie sulla scorta dell’assunto secondo il quale i cittadini sono sovrani e se sono ben informati non hanno bisogno di esperti per decidere.

Ma la trasparenza non può esistere, dice Carbone, fintantoché la vita sociale si svolge su media che hanno il potere di separare ciò che viene visto e ciò che non viene visto dai soggetti della politica – i cittadini, che sono tutt’ora gli umani – e che esercitano questo potere seguendo criteri che non sono noti a tutti. E che in certi casi, appunto, non sono noti a nessuno.

I “pregiudizi” impliciti in certe intelligenze artificiali, in certe interfacce, in certe piattaforme, sono le più ovvie forme con le quali i media digitali intervengono in modo denso di conseguenze nella vita sociale, svolgendo la loro funzione di intermediazione e dunque impedendo la trasparenza totale. Che peraltro sarebbe ragionevolmente impossibile come somma di accessi di tutti i cittadini a tutti i temi in discussione su tutti i tavoli politici nei quali sono coinvolti. E che proprio per questo diventa sempre più impossibile agli umani tout court, visto che le intelligenze artificiali intervengono in ogni tema nel quale si raccolgono dati attraverso l’azione umana registrata dai computer.

Ma se non ci può essere totale trasparenza, allora ci può esser solo negoziazione. E il massimalismo lascia il posto alla politica reale.

Se c’è negoziazione, avrebbero senso i partiti, le associazioni, i corpi intermedi, gli stati, le regioni e le aggregazioni soprannazionali, quindi tutta la pluralità di dimensioni dell’umano. Ovviamente avrebbero senso se riuscissero a funzionare in modo coerente con il contesto mediatico contemporaneo, mentre molti corpi intermedi esistenti sembrano ancora pensare come nel secolo scorso.

Non siamo individui che prendono decisioni solitarie in modo più o meno razionale come ci dipingeva l’ideologia del trentennio iperliberista, fondato sulla speculazione finanziaria e il consumismo. Non siamo neppure cittadini soli che partecipano direttamente a tutte le decisioni sulla base di piattaforme di condivisione della conoscenza e della decisione poco comprensibili ai più. Siamo una pluralità di dimensioni. E in questo caos, l’automazione aiuta a gestire le operazioni più complicate, ma la dimensione umana – comunitaria – è indispensabile per alimentare il pensiero della complessità. In questo senso l’efficienza è nel dispositivo mediatico che avviluppa la vita quotidiana, ma il valore è nel contributo umano, comunitario, autentico. Imprevedibile. Un contributo che supera la questione del mero adattamento alle nicchie eco-culturali che sono state formate intorno alle soluzioni tecno-organizzative del passato, perché ripensa costantemente la possibilità di allargare i confini delle nicchie esistenti. I limiti del possibile non sono il limite dell’umano.

I corpi intermedi contemporanei costruiscono piattaforme, lavorano sul futuro, scommettono sull’evoluzione. E ormai si è capito che hanno tutte le possibilità per trasformarsi in questo senso. Purché studino. E prendano decisioni con il coraggio della consapevolezza.

Vedi anche:
Telmo Pievani, Luca De Biase, Come saremo, Codice 2016
Luca De Biase, Homo pluralis, Codice 2015
Luciano Floridi, The fourth revolution, Oxford University Press 2014

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Luca De Biase

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