È cominciata ieri la nuova serie di incontri sulla trasformazione digitale all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles. Quest’anno il titolo è “Make digital right”. Gli incontri tra ricercatori che si occupano di filosofia e scienza si svolgono al Bozar, alle 19:30. Ieri era la volta di Mauro Carbone, professore di filosofia all’università Jean Moulin Lyon 3, e di Amélie Cordier, direttrice scientifica della Hoomano, azienda che produce intelligenza interattiva per robot sociali, basata anch’essa a Lione in Francia. Il titolo della serata era: “Esthétique de la vision numérique. Comment la révolution numérique augmente aujourd’hui notre perception”.
Il tema è meno dibattuto di quanto servirebbe. L’adozione massiccia dei media digitali che ha fatto dire alla Corte Suprema degli Stati Uniti che ormai si può pensare allo smartphone come a una parte dell’anatomia umana – in ogni caso di tratta almeno di una protesi praticamente indispensabile – ha cambiato il corpo umano e l’ambiente nel quale si svolge la sua vita in modo radicale negli ultimi 25 anni. Ma quello che abbiamo davanti è in un certo senso ancora più difficile da interpretare. Perché intelligenza artificiale, robotica, genetica, neuroscienze e persino nanotecnologie stanno convergendo, sulla base delle tecnologie digitali, per dare luogo a un’ulteriore accelerazione della trasformazione. Il problema è discernere ciò che davvero cambia e ciò che continua, ciò che sfida la capacità di adattamento e ciò che viene ricondotto a paradigmi tradizionali, ciò che libera la creatività umana e ciò che la vincola o la annulla. Nella ricerca sulla trasformazione della percezione si trovano fenomeni decisivi per la comprensione dell’apparente ambiguità di qualunque risposta veloce a tali quesiti.
Mauro Carbone ha mostrato come la storia della ricerca intorno ai media offra una prospettiva fondamentale per interpretare questo passaggio. Citando Walter Benjamin e Marshall McLuhan, ha suggerito che i media digitali proseguono la strutturale trasformazione della percezione umana avviata dai media nati nel corso del Novecento. Come Benjamin diceva del cinema, i media digitali trasformano la percezione. Come McLuhan diceva dei media che conosceva, sono protesi delle capacità di percezione, arrivano a simulare la coscienza. In effetti, dice Carbone, gli schermi che servono a entrare nei media digitali sono diventati l’interfaccia principale con il mondo, aumentando le percezioni, allungando lo sguardo umano per condurlo là dove le telecamere connesse guardano e registrano. Ma nello stesso tempo si dimentica che si sta guardando uno schermo e ci si concentra su ciò che l’occhio elettronico consente di vedere. Sottolinea Carbone: «In questo processo c’è contemporaneamente un aumento e un’autoamputazione delle capacità umane». È questa la sorgente fondamentale dell’ambiguità.
I media digitali, con le mappe connesse al satellite o alla rete internet, offrono il servizio di orientamento più efficace che si sia mai visto. E nello stesso tempo consentono di amputare la capacità di orientamento autonoma degli individui. E in mille altre applicazioni hanno effetti analoghi. I media digitali e i loro schermi seducono, imprigionano. E offrono un’inedita opportunità: «Vedersi come un altro visto da altri». Il prosumer, il produttore consumatore di “contenuti mediatici” non è soltanto un produttore non professionale: è il pubblico di sé stesso. L’utente si trasforma nel personaggio di una storia mediatica della quale è lo spettatore.
Amélie Cordier ha sottolineato questo ambiguo effetto di aumento e autoamputazione delle capacità umane riferendosi, con l’intelligenza artificiale, alle capacità cognitive. Il machine learning che offre raccomandazioni di brani musicali basati sul genere di brani scelti in passato dagli utenti, aumenta la capacità di trovare musica gradevole e nello stesso tempo spinge a chiudersi in una bolla guidata da algoritmi banalizzanti, limitando le nuove esperienze. Queste protesi intellettuali hanno conseguenze ambigue. E la robotica rende la sfida ancora più grande. Se all’epoca dei film la scelta era se andare o no in quale cinema, se all’epoca della televisione la scelta era riferita a quale canale seguire, nel mondo degli schermi digitali le possibilità sono enormemente moltiplicate e nel mondo dei robot – che Cordier vede come media – sono moltiplicate e incarnate in oggetti con i quali si è condotti a intrattenere una relazione, perché hanno interfacce pensate per generare emozioni.
Cordier suggerisce che è nella responsabilità di ciascuno la scelta su come utilizzare questi media. Ma indubbiamente è anche responsabilità di chi progetta i robot. E di chi progetta il sistema educativo che prepara a conoscere questi media.
Come dice Carbone, in effetti, i media tendono a spostarsi dalla condizione di strumento al servizio del corpo per diventare tecnologie che usano il corpo per funzionare. Un esempio è un occhiale digitale che scriva sulla retina. Ma in generale l’evoluzione dell’interfaccia tende a favorire «l’ingnoranza della mediazione», dice Carbone. Il che corrisponde all’ideologia della perfetta trasparenza e del cosiddetto populismo. Con il conseguente complottismo.
E come dice Cordier, il sistema educativo deve reagire alimentando il senso critico, l’empatia, le capacità di relazione sociale.
Responsabilità dei progettisti. Responsabilità degli educatori. Responsabilità dei cittadini. Tutto questo converge. E la necessità di questa convergenza è dimostrata dalla trasformazione della percezione, dell’estetica, nell’epoca digitale.
Il prossimo incontro, il 23 ottobre sempre a Bozar, si occuperà proprio di trasformazione dell’educazione. Ci saranno Stefano Moriggi, filosofo, e Carey Jewitt, specialista di apprendimento e tecnologia.
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