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I dilemmi degli editori innovatori

L’innovazione necessaria agli editori è radicale. Molti tentano di gestire una fase di passaggio graduale al nuovo contesto del mercato editoriale. E forse è una strategia obbligata. Ma sta di fatto che la trasformazione del mercato e della tecnologia impone una visione di innovazione radicale. Ne scrive Clayton M. Christensen, importante teorico dell’innovazione radicale che insegna e fa ricerca a Harvard, in un articolo pubblicato con David Skok e James Allworth. Lo ha riportato Lsdi. E se n’è accennato in un paio di post precedenti, linkati sotto.

Nella teoria di Christensen, l’innovazione radicale è più un affare per startup che per grandi compagnie stabilizzate. Non perché queste ultime non conoscano la tecnologia che apre nuovi scenari nel mercato. Ma perché il vantaggio economico che le nuove tecnologie offrono non è sufficiente a ripagare la perdita del valore generato con le vecchie tecnologie. E’ appunto spesso il caso degli editori. E con l’analisi dei casi procede Christensen, per cercare gli spazi di innovazione che gli editori tradizionali possono esplorare e per indurli a ragionare correttamente intorno alle innovazioni, di prodotto e di processo, che possono introdurre.

In generale, Christensen cerca di trovare nuovi prodotti e servizi che gli editori possono sviluppare per venderli al pubblico. E cerca di capire come gli editori possono riorganizzare i loro processi per generare quel tipo di prodotti. Per trovare idee, Christensen guarda ai casi di grandi innovatori di altri settori – come Ikea – e naturalmente analizza i casi degli editori che hanno trovato qualche strada per avanzare.

L’articolo è diviso in tre parti, concentrate intorno a tre domande:
1. A che cosa il pubblico riconosce valore?
2. Qual è l’impatto delle innovazioni sull’editoria e in che modo si possono sfruttare nuovi spazi di generazione di valore?
3. Quali abilità e skill devono essere introdotte nell’organizzazione degli editori per generare valore nel nuovo contesto.

Inutile sintetizzare. I casi vanno letti. Meglio integrare le brevi risposte con alcune considerazioni basilari.

1. A che tipo di lavoro il pubblico riconosce valore? Il pubblico valuta i prodotti che servono alla sua gestione del tempo, osserva Christensen. Si potrebbe aggiungere che il pubblico valuta i prodotti che riescono a concentrare l’attenzione e che sono rilevanti perché sono considerati rilevanti, dunque entrano nelle conversazioni delle reti sociali alle quali le persone partecipano. Sono le tre scarsità: tempo, attenzione, rilevanza. Emerse come strategiche dopo che la scarsità di spazio per la pubblicazione è diventata meno cogente.

2. I nuovi modelli di business, dice Christensen, si trovano se si abbandona la visione di un mondo chiuso all’interno del processo dell’azienda e si apre la pratica aziendale alla collaborazione integrata di fornitori, clienti, pubblico. In un mercato tendenzialmente internazionale se non addirittura globale. Si potrebbe dire, a commento, che in un certo senso la grande azienda innovativa fa un’attività che assomiglia a quella di una piattaforma. Con in più la cura per la selezione di ciò cui vale la pena di dedicare attenzione. Le startup sono più veloci e hanno meno timori in questa ricerca di nuovi modelli. Ma le grandi aziende possono puntare sulla scala del loro sistema di distribuzione. E candidarsi a vendere le notizie con la logica della “consulenza” o della fornitura di contenuti a non editori che ne abbiano bisogno. Inoltre, possono dare un valore a chi organizza eventi. E altro ancora. A commento, si può dire che occorre una metodologia dell’innovazione che può funzionare con un approccio di tipo empirico, sperimentale, accompagnato da un continuo affinamento della visione, cioè della teoria con la quale si interpreta la situazione.

3. Risorse, processi, priorità, vanno ripensare. Su questo il professore di Harvard ha molto da dire. Diverse strategie sono possibili: acquisire skill acquisendo startup, sviluppare competenze all’interno, creare una nuova organizzazione indipendente da quella tradizionale e avviarla a diventare un’azienda autonoma. Vale per ogni grande organizzazione che affronta un periodo di innovazione radicale e cerca nuovi mercati. Questa parte dell’articolo di Christensen e soci va letta con attenzione particolare. Probabilmente, gli editori che vogliono diventare innovatori dedicano attenzione a prodotti e tecnologie, ma talvolta dimenticano la costruzione di un’organizzazione capace di concentrarsi sull’innovazione. Un cambiamento radicale non avviene senza un convinto appoggio delle persone che la devono pensare, sperimetare, interpretare giorno per giorno.

Sono considerazioni che in parte sono state fatte in molti casi. Questo articolo ha il merito di porre il problema in modo harvardiano: laico, lucido, empirico. Non c’è la ricetta. E nemmeno l’ispirazione. Ma almeno c’è una bella chiarezza sul punto di partenza: il mercato editoriale ha bisogno di innovazione radicale. Il dilemma dell’innovatore appare particolarmente forte in questo settore: ma il momento storico impone di scegliere.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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