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Il metodo giornalistico a Vienna. I principi e la pratica, ma in modo che funzioni

La distinzione tra l’informazione di qualità e la comunicazione che si limita a sostenere una causa passa essenzialmente attraverso il metodo di ricerca e pubblicazione dell’informazione. Si è parlato spesso in questo blog dell’aspirazione a una sorta di “epistemologia dell’informazione”. Ma si tratta di un’epistemologia che emergerà, se emergerà, tenendo conto delle condizioni reali del lavoro di ricerca dell’informazione, per connetterla e arricchirla con le considerazioni teoriche.

Un bagno di realtà si è visto oggi a Vienna, al World Editors Forum. La survey sull’evoluzione dell’industria dei giornali (crossroads) basata su un’enorme mole di dati, ha mostrato ancora una volta quali sono le maggiori tendenze in atto nell’editoria, con uno spostamento dell’asse economico verso l’Asia, una sempre più rilevante presenza delle tecnologie digitali nella vita delle redazioni e nelle strategie degli editori, una crescente e talvolta costruttiva relazione tra il giornalismo professionale e i social media. Intanto, le discussioni nei panel del Forum tra i giornalisti hanno raccontato con molti dettagli la crescente complessità del mondo dei giornali.

E un filone di conversazioni nei panel e nei corridoi è stato legato al metodo giornalistico emergente nelle zone di guerra o di tensione.

Magda Abu-Fadil, direttore del Journalism Training Programme, all’American University of Beirut, in Libano, si è chiesta come si fa a “dire la verità” nel corso di una rivoluzione. Il panel era dedicato alle vicende dei paesi arabi che hanno conosciuto un terremoto politico nel corso del 2011. «Come fanno i giornalisti a mantenersi obiettivi in mezzo a situazioni come quelle? Devono restare obiettivi? Io penso di sì». Sì, ma come? Philippe Massonnet, Global News Director dell’Agence France-Presse, dice: «Abbiamo linee guida molto strette e le manteniamo con tutte le nostre forze. Ma bisogna anche tener conto del fatto che dobbiamo proteggere i nostri collaboratori sul campo. E non possiamo far finta che non ci sia pericolo. Questo certe volte può esporli a relazioni molto strette con alcune parti in campo». Hoda Abdel-Hamid, corrispondente di Al Jazeera English dice che «raccontare quello che avviene sul campo significa usare, razionalmente, tutto quello che si trova e qualche volta gli unici disposti a parlare sono quelli che stanno protestando…». Già, anche se l’obiettivo è fare i giornalisti con obiettività, in quelle condizioni non è facile. Ma c’è forse un tema più radicale: «Quando ti confronti con una dittatura» dice Gamal Eid, avvocato e difensore dei diritti umani, Arabic Network for Human Rights, «quando ti confronti con una dittatura hai solo due possibilità: o sei contro o sei a favore». La posizione obiettiva degli osservatori e dei giornalisti è rischiosa, perché sembra cercare una terza via che per Eid non esiste. Magda Abu-Fadil ha concluso dicendo che avvicinarsi all’obiettività, con accuratezza, equilibrio e capacità di raccontare il contesto, resta lo scopo fondamentale del metodo giornalistico. Massonnet le ha dato ragione e così pure Abdel-Hamid. Ma le parole di Eid sembravano descrivere quanto pesante sia la minaccia per quel metodo in una situazione particolarmente violenta.

Ma il metodo giornalistico è stato messo a dura prova, negli ultimi tempi, anche dalla vicenda Wikileaks. Ne hanno parlato molto a Vienna. Daniel Domscheit-Berg, ex partner di Julian Assange, sostiene che Wikileaks doveva limitarsi a mettere a disposizione la piattaforma per consentire la pubblicazione sicura – per la fonte – di documenti riservati, invece di assumere un ruolo mediatico tanto importante. Ma in generale gli argomenti erano pensati dalla parte dei giornali. Come facevano a fidarsi? Potevano pubblicare materiale riservato? Stavano prestandosi a operazioni manovrate da qualcuno? I giornalisti presenti avevano un’idea generale in mente, espressa in particolare da un rappresentante di El Pais: «Wikileaks era una fonte. E la trattavamo come si fa con tutte le fonti». Ma N. Ram, direttore di The Hindu che in India ha pubblicato 5.100 documenti provocando una crisi di governo che ha messo in pericolo la coazione guidata dal primo ministro Manmohan Singh, è riuscito a farlo con un accordo preciso con WikiLeaks e il fondatore Assange. Ma Ram osserva che la complessità emersa nella relazione con Wikileaks va compresa fino in fondo. «Wikileaks ha cambiato le regole del gioco. Ha mostrato il potere della tecnologia e soprattutto il potere delle idee di libertà e giustizia. Ha dato ragione ai giornali che hanno preso il rischio di collaborare con gli hacker e i geeks. Ma mi ha anche convinto della necessità per i giornali di dotarsi a loro volta di una piattaforma tecnologica che li renda indipendenti da Wikileaks. Quanto all’idea che Wikileaks sia solo una fonte… Ho chiesto ad Assange che cosa ne pensasse prima di venire qui a Vienna. Ha risposto: “Wikileaks è ed è sempre stato un editore. Quando abbiamo materiale che non possiamo usare noi stessi o che è più rilevante per altri lo diamo per generosità e spirito di collaborazione a chi ne può fare uso”. Quindi noi giornali che abbiamo aiutato Wikileaks a far uscire i suoi documenti siamo stati agenti di un altro “editore” non eravamo nella condizione tipica delle relazioni tra giornalisti e fonti di informazione. Non avessimo pubblicato noi, Assange avrebbe trovato altri».

Il metodo giornalistico, dice John Lloyd che dirige il Reuters Institute for the Study of Journalism a Oxford, contiene molti principi che evolvono costantemente. Serve a condurre l’azione dei giornalisti verso l’obiettività, non certo a garantire che la raggiungano. Ma da questo a dire che i giornalisti devono essere schierati ce ne corre.

Questo è il punto. Il principio si applica nel modo migliore possibile. Ma abolire il principio, di fatto abolisce il giornalismo: accuratezza, indipendenza, trasparenza, legalità sono necessari punti di riferimento.

Ma questo vale per chiunque faccia informazione. Chi lo fa per professione sviluppa il suo metodo artigianalmente sul campo. Chi lo fa da cittadino per contribuire alla crescita della convivenza civile può attingere alla stessa esperienza e conoscenza. Per arrivare a informazioni più facilmente e credibilmente condivisibili. Sul campo è sempre difficile applicare i principi: ma senza i principi si percorrono strade divergenti. L’informazione invece è una risorsa troppo preziosa a favore della convivenza pacifica e la discussione consapevole in una società per lasciarla andare in mano a chi ne vuole fare solo un’arma politica, ideologica o economica. I principi si comprendono affrontando la pratica: ma la pratica non è una scusa per dimenticare i principi… (cfr. Ahref e Timu)

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  • Grazie per il bel post, sorprende l’assenza di giornalisti, editori o esperti del settore dell’editoria in Cina. Sfogliando la lista dei partecipanti noto che hanno presenziato solo due giornalisti, nessuno dei quali proveniente da giornali ufficiali o nazionali

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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