Gabriele Balbi e Peppino Ortoleva hanno scritto “La comunicazione imperfetta. Ostacoli, equivoci, adattamenti” (Einaudi 2023). Chi lo legge ci trova un bellissimo regalo intellettuale che arricchisce il dibattito sulla comunicazione con una dimensione indispensabile e spesso dimenticata. A partire dall’osservazione, spesso abbondantemente dimenticata, secondo la quale la comunicazione molto spesso non funziona.
In un periodo storico nel quale i temi della disinformazione, dell’information overload, della banalizzazione della conoscenza si avvicendano sul palcoscenico del dibattito sui destini della civiltà occidentale, Balbi e Ortoleva aiutano ad allargare lo sguardo. In modo che si rivela creativamente liberatorio.
Gli autori offrono un’interpretazione critica delle principali teorie della comunicazione, tra la semiologia e la sociologia, tra la matematica e la mediologia. Ricostruendo una sorta di archeologia delle teorie della comunicazione, gli autori scoprono che tutti gli approcci tradizionali hanno caratteri originari comuni: una visione lineare del processo di comunicazione, un’attenzione particolare per le forme della mediazione e una tendenza a considerare un mezzo di comunicazione alla volta. Di fatto, le teorie tradizionali della comunicazione si occupano, appunto, delle situazioni nelle quali la comunicazione riesce. La realtà è molto più complessa, mostrano Balbi e Ortoleva. Si osserva facilmente che in molti casi la comunicazione non riesce: ci sono errori, malintesi, silenzi, incomprensioni. Nel presunto modello della comunicazione che funziona, questi casi appaiono come errori marginali. Ma se ci si rende conto che il modello della comunicazione perfetta non si applica alla maggior parte delle circostanze della vita, allora occorre rivedere la teoria. L’attività di comunicazione si svolge nello stesso ambiente nel quale gli umani vivono tutte le loro altre esperienze e avviene in un intreccio di media, contesti, codici e tecnologie piuttosto inestricabile. E infatti, come avviene ogni volta che si approccia per la prima volta un argomento della complessità, il libro è soprattutto una mappa. Ma non soltanto una mappa. Perché l’argomentazione sfocia in un approccio teorico. Che alla fine apre a una completa riconsiderazione pratica dell’attività di comunicazione, che parte dalla considerazione decisa secondo la quale “la comunicazione è imperfetta”. E questo perché è un’attività che si svolge in un contesto intrinsecamente complesso. «Il comunicare umano non può essere ricondotto solo alla trasmissione e ricezione di contenuti, ma è anche condizionato da molti altri aspetti» scrivono gli autori: «l’inevitabile (e necessaria) ambiguità dei linguaggi, la materialità dei mezzi con i loro limiti e affordance, la complessità dell’ambiente informativo nel quale ogni singolo messaggio è immerso e dal quale trae parte del suo senso, i presupposti spesso non esplicitati e in larga misura discendenti dalla cultura, dalla situazione sociale, dai pregiudizi e anche dalle relazioni preesistenti tra le persone, inclusa la maggiore o minore fiducia che si è stabilita: presupposti e condizionamenti che fanno da sfondo a ogni processo comunicativo».
Sintetizzando in modo sicuramente impreciso, la comunicazione è dunque un’attività che avviene nella complessità di un ecosistema, che si configura essenzialmente come un adattamento di ogni elemento con ogni altro, il che genera mutazioni e cambiamenti continui, che tendenzialmente smentiscono ogni cristallizzazione in modelli stabili: quindi, si direbbe, appartiene ai fenomeni dell’evoluzione – culturale – degli umani. Probabilmente, ne consegue il suggerimento di un approccio storico alla comunicazione, il che alla fine si traduce in un approccio onnicomprensivo, empaticamente orientato a comprendere gli errori quanto le riuscite della comunicazione in un insieme più realistico che schematico.
Di certo, tutto questo si allargherebbe ulteriormente tenendo conto delle relazioni tra comunicazione e conoscenza, che il knowledge management nella sua accezione più larga può suggerire. E soprattutto nel contesto dell’economia della conoscenza, nella quale il valore si concentra sull’immateriale, cioè la ricerca, l’immagine, il design, il senso dei prodotti, rendendoli di fatto parte del mondo degli oggetti che comunicano la conoscenza che incorporano. In questo contesto, se si parla di branding e significato, di valore e di valori, di collaborazione e conflittualità, si parla di fatto di processi complessi che hanno senso soltanto se affrontati con una mentalità olistica. In questo contesto, molto umanamente, la comunicazione è un aspetto della vita, non un meccanismo logico. Non soltanto un meccanismo logico.
Il libro di Balbi e Ortoleva va letto assolutamente per chiunque lavori nel mondo della comunicazione. Un mondo che oggi è davvero esteso, molto al di là dei mestieri accademici: gli autori riescono a interessare chi viva in quel mondo con curiosità sincera, senza cedere di un millimetro sul rigore della ricerca. E anzi dimostrando che la ricerca vera è molto più simile alla vita che a uno spazio intellettuale protetto.
Affordance in Wikipedia è ricondotto a un lavoro del 1979 dallo psicologo statunitense James Gibson: “Un approccio ecologico alla percezione visiva”.
Foto: “Museum of Communications” by Cargo Cult is licensed under CC BY 2.0.
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