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Riassunto di ansie mediatiche

Ebbene, riassumiamo. Il Censis dice che il 69,3 per cento degli elettori ha deciso come votare essenzialmente in base alle informazioni fornite dai telegiornali. Il 30 per cento ha seguito i programmi di approfondimento, sempre in tv. I giornali hanno avuto importanza per il 25 per cento. Internet è stata importante solo per il 2,3 per cento. Ma per gli studenti e i giovani, la percentuale sale al 5,9 per i siti indipendenti e al 7,5 per i siti dei partiti.

La televisione è determinantissima. Ed è organizzata in modo tale che vi prevale la strategia delle balle piuttosto che l’informazione. Internet non fa agenda, ma attrae i giovani.

Gli editori di giornali gestiscono media che riescono a mantenere una certa importanza politica ma economicamente si trovano stretti tra un medium dominante, poco preoccupato per la ricerca giornalistica di qualità e ancora poco coinvolto dalla crisi dei modelli di business tradizionali, e una tecnologia innovativa che attrae i giovani. Una posizione strategica molto complicata.

L’informazione è democrazia, dice il capo dello stato. Ma entrambe sono parecchio in crisi, in Italia.

Il giornale la Repubblica riporta oggi una tabella nella quale si vede come la pubblicità acquistata dal governo sia aumentata del 237 in televisione e diminuita del 98 per cento nei quotidiani (il raffronto è tra il primo trimestre del 2008 e il primo trimestre 2009). In particolare, su Canale 5 è passata da 440 milioni a 2,1 miliardi; su Italia 1 è passata da 230 a 536 milioni; su Retequattro è passata da 163 a 253 milioni.

Gli inserzionisti devono tener conto anche del fatto che il premier ha chiesto agli industriali di non fare pubblicità sugli organi di informazione disfattisti, cioè non amici del governo. E in effetti va apprezzata Emma Marcegaglia che ha rimandato al mittente l’invito.

Di fronte a tutto questo, anche gli editori dovrebbero mostrare molto coraggio. E parecchia inventiva. Ma anche queste sono parecchio in crisi al momento (non solo in Italia per la verità).

La rete offre le massime opportunità per cambiare la situazione. Ma quelle opportunità vanno colte. Che qualcuno lo faccia è molto probabile. Che lo facciano gli editori tradizionali è più difficile. Ma questo non è un bene. Almeno dal punto di vista della democrazia. Nonostante tutti i difetti dei giornali tradizionali, l’agenda politica è ancora troppo poco influenzata dalla rete e gli elettori si rivolgono alla rete ancora troppo poco per informarsi sulla politica. In questo contesto, una crisi vera dei giornali sarebbe una potenziale vittoria del populismo.

Certo, qualcosa di nuovo, alla lunga emergerà. Alla lunga: perché la rete, nonostante la velocità delle sue innovazioni, favorisce i cambiamenti strutturali più di quanto non sostenga le trasformazioni rapide. La ragione è semplice: la rete è fatta di tecnologia ma il suo apporto in termini di informazione è invece sostanzialmente coerente con le dinamiche di chi la fa, cioè con le dinamiche socio-culturali; e mentre la tecnologia va veloce, le dinamiche socio-culturali vanno lentamente.

Nel breve-medio termine, dunque, la funzione dei giornali tradizionali resterà fondamentale per la democrazia e l’opinione pubblica. E le loro difficoltà resteranno le difficoltà della democrazia e dell’opinione pubblica. La soluzione emergente sarà probabilmente un cambio di relazione tra la rete e i giornali: non più di alterità ma di simbiotica collaborazione. Il che avverà solo se i giornali si metteranno al servizio della rete. Dovessero riuscirci (garantendo qualità, ascoltando le istanze del pubblico, informando in modo da contribuire all’emergere di un’agenda condivisa) troverebbero contemporaneamente un nuovo ruolo e forse un nuovo modello di business.

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  • Si parla tanto delle nuove capacità della rete contro lo strapotere mediatico della televisione. Sarà.
    Ma un ottantenne di Nusco (AV) è stato l’uomo più votato nel meridione. Eppure non si è visto né in televisione né tanto meno nella rete.
    Tu affermi: “Alla lunga qualcosa di nuovo emergerà” anch’io ne sono convinto, intanto ci deve essere -qualcosa- che ora ci sfugge…

  • Lavoro nel sociale con un centinaio di persone, dai 25 ai 50 anni tutte mediamente istruite: molte laureate, tutte diplomate, sia uomini che donne. Ogni giorno possono accedere liberamente ad internet, navigare dove più gli aggrada nelle pause di lavoro o, teoricamente, per ricercare materiale e informazioni di cui necessitano. Da tecnico informatico quale è il ruolo che svolgo dentro questa dimensione, quotidianamente scopro che una percentuale piccolissima sa digitare su un browser (nessuno conosce il significato di questa parola) un indirizzo internet. Così che quasi mi commuovo quando mi dicono che hanno letto su Repubblica on line che è accaduto qualcosa. C’è ancora molto da fare… e molta curiosità da produrre…

  • Luca hai involontariamente trascritto(ne sono sicuro)i dati della comunicazione Istituzionale del governo, pensando a quella assoluta. Sono più striminsiti i dati che rigirano a Publitalia, anche se il senso del discorso è a prescindere dalla entità e rimane tale.
    Quello che in una economia di mercato dovrebbe esser insopportabile è la legittimazione dell’azzardo morale rovesciato e sbandierato come fosse un valore.
    Non è più implicita l’implicazione ma siamo al o mi dai i soldi o ti regolamento contro.
    Certe comunicazioni agli investitori dovrebbero esser comprese nella normativa del market abuse. E forse ci sarebbero anche gli estremi se equiparate alle informazioni market sensitive. Ma chi vorrebbe perorare una causa del genere se addirittura tagliare budget per necessità potrebbe mandare nella lista nera di una brutta campagna o un emendamento ostativo.
    Il capo del governo aveva ragione a metà, il 50% degli italiani sono coglioni, il resto più o meno ricattabili.

  • Sinceramente a me non toglie ansie il metodo usato. Ho letto l’eccezione metodologica che imputi anche se in realtà non è quella degli item della survey.
    Nelle domande il framing è opportunamente allargato anche ai blog, forum e social network. Poi lascialemo dire senza peli, quali sono i 20 milioni di italiani che porti come controdeduzioni, quelli che comprendono anche minorenni, che si collegano almeno una volta al mese, da una postazione pubblica o casa dell’amico e pere vedere la mail? L’errore di metodo sembra piuttosto quello del wishful thinking dei tecnoentusiati.

  • I 20 milioni di utenti sono quelli ufficiali di Audiweb http://ricercheonline.nextplora.com/, per l’esattezza 28 milioni e rotti che hanno accesso ad Internet, che comprendono anche i minorenni (+11 anni), perciò dico 20 milioni.
    Non c’è nessun tecno-entusiasmo, solo una precisazione sul modo di fare le cose, magari se fosse pubblicato dall’AGCOM il questionario, potremmo andare meno entrambi a deduzioni. La questione è, e resta, che intervistare al telefono a riguardo di Internet confrontando porta a porta con il frame pure ampio, non è cosa. Hanno coperto il segmento di persone che non hanno un telefono fisso da casa? Come? Il 30% della popolazione ha solo il cellulare, e gran parte di essa è sovrapposta all’utenza Internet…mah?

  • Andrea, da quanto si deduce dalla risposte nel loro comunicato pubblico, le domande item menzionano tutte le fonti web e non solo portali specializzati o di partiti.
    Quando pubblicheranno le note metodologiche sarà più chiaro. Per quello parlavo di entusiasmo. Fino a prova contraria non mi sentirei di dare degli incompetenti al Censis sulla rappresentatività del campione. In questo sono io wishfull thinking researh, ma onestamente diversamente dovrei fare dietrologia. Dubito che non si regolino di conseguenza al churn di telefono fisso mobile. Anche perché non è che chi non ha più il telefono fisso sparisce dagli elenchi. Ok, i database sono più lenti dei cambiamenti ma non possiamo neanche pensare che il metodo di contatto sia quello dei meter auditel che non mi risulta siano stati cambiati ancora.
    Nielsen dice che la penetrazione è 22 milioni (da 14 anni in su), ma menzionando il cellulare, nell’accesso a internet vengono compresi anche i 6,6 milioni che si collegano in mobilità? Il report non lo chiarisce ma ho l’impressione che per una parte di questi, si giustapponga. Se così fosse, non andrebbero ad informarsi di politica, possiamo ammetterlo plausibilmente.
    http://it.nielsen.com/site/documents/ABSTRACT-MediaMonthlyReport-Giu09.pdf
    Altro punto da chiarire è la connessione a internet, se si parla del poco più del 30% delle famiglie in banda larga allora sì, perché mettere nel calderone anche il dial up a 56 kbit non sarebbe congeniale per informarsi.
    Per quando è già tutto da verificare nei dati nudi degli utenti unici, a onor di metodo andrebbe anche ponderato lo share of mind, la televisione è su circa 300 minuti quotidiani, più del quintuplo del tempo dedicato al web, che si riduce in 26 ore mensili contro le 150. In questo caso il peso si ridurrebbe di 1/5 anche a prescindere dai generi, così almeno statistica vuole. Ma lo vorrebbe anche qualsiasi investitore interessato all’impatto del suo messaggio. La politica per prima.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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