Se un paese esce dalla spirale dell’epidemia ma gli altri paesi ci sono ancora in mezzo, il paese che si è salvato rischia di essere di nuovo infettato. (Singapore, Cina, Corea, lo sanno).
Nessun paese ha un’economia più solida degli altri se il sistema economico globale collassa veramente. (Tedeschi, olandesi, finlandesi, non lo sanno ancora. Ma gli islandesi sì).
Nella rete degli umani connessi e globalizzati non ci sono spettatori ma solo protagonisti.
In un contesto del genere o si lavora insieme per il bene comune o si distrugge tutto ottenendo pessime conseguenze per ciascuno. La generosità non è in questo caso altruismo ma una forma di intelligente egoismo.
Ebbene. Niente può garantirci che le persone comprendano che la generosità conviene. E men che meno la razionalità. Così come non è mai esistito l’homo oeconomicus ipotizzato dagli economisti neoclassici che massimizza sempre la propria utilità operando razionalmente dal punto di vista economico, altrettanto è difficile che ci sia un umano che si comporta sistematicamente in modo egoisticamente generoso perché lo capisce razionalmente. Daniel Kahneman ci ha mostrato che il ragionamento controllato è un percorso cognitivo minoritario: è molto più probabile che le scelte degli umani siano prese in base all’intuizione. L’intuizione è il primo pensiero che viene in mente quando si deve operare una scelta. E il primo pensiero viene da mondi mentali diversi: quello che le persone hanno appena sentito dire, il mood generale che pervade l’ambiente mediatico, i messaggi ripetuti di chi vuole manipolare l’opinione generale o i suoi target commerciali, i pregiudizi, le esperienze, il frame interpretativo di moda al momento, e così via. Se i leader giustificano la maleducazione o addirittura la praticano, altri li seguiranno: allo stesso modo ci saranno effetti emulativi per la mancanza di generosità, per la mancanza di lungimiranza, per il disprezzo nei confronti degli esperti, e così via.
Come se ne esce? Non ci sono risposte, forse soltanto un’“intuizione”: cioè che anche l’intuizione può essere alimentata meglio.
1. Le dinamiche della leadership culturale sono piuttosto rilevanti. E non scontate. Da qualche tempo le opinioni degli esperti sono di nuovo autorevoli: il virus ha messo tutti di fronte a una necessità di sapere come stanno le cose. Le scelte operate in base ai dati e alla capacità di capire che cosa dicono veramente cominciano a essere preferite rispetto a quelle meramente ideologiche o emotive. Qualche studio (citato sotto) dimostra che la fascinazione per le cavolate non è più così inarrestabile. La leadership culturale potrebbe essere in procinto di tornare all’autorevolezza di chi ha costruito una competenza? Non è escluso.
2. Sappiamo comunque che quello che favorisce la scarsa qualità dell’ambiente culturale è la tendenza da parte del sistema dei media tradizionali a dare spazio alle peggiori forme di informazione che nascono in rete, vengono sviluppate dai manipolatori di professione e vengono riprese dai politici. Fino a che le bufale facevano male solo alla verità e facevano bene ai bilanci di certi editori, la circolazione della disinformazione seguiva la dinamica dell’intrattenimento: ma a partire dal momento in cui chi aiuta a sapere come stanno le cose e non si lascia ingannare dalle bufale riesce a dare un servizio considerato veramente utile, in un contesto fortemente e concretamente problematico, la selezione dei media si muove a favore di chi lavora inseguendo la qualità e non la mera attenzione. I media di qualità potrebbero avere di nuovo una chance di sostenibilità? Non è escluso.
3. Uno dei bisogni emergenti, nel contesto della enorme trasformazione attuale, è quello di una nuova formazione orientata a imparare la resilienza, l’innovatività, la visione strategica, la tecnologia emergente, e così via. Un passaggio alla consapevolezza della validità dell’impegno nell’approfondire, conoscere, studiare, avrà una conseguenza culturalmente rivoluzionaria, dopo trent’anni di disimpegno televisivo e, poi, social. Relazioni sociali basate sulla qualità dei valori trasmessi, sulla concretezza delle comunicazioni, sulla crescita esperienziale condivisa, potrebbero anche finire con l’emergere dalla dura congiuntura attuale? Non è escluso.
Si tratta di scenari fondamentalmente culturali. Cioè orientati a osservare la possibilità di un cambiamento culturale tale da costruire un ambiente tale da favorire percorsi cognitivi relativamente sani.
Se questi scenari hanno una probabilità superiore a zero di verificarsi le condizioni dell’intuizione migliorano. Perché il primo pensiero di una popolazione con gli automatismi mentali definiti da leader, media e sistemi formativi migliori non può che essere migliore. In questo caso, l’analisi ci porta a dire che migliore vuol dire capace di vedere che siamo tutti indirizzati verso una prospettiva comune, nella quale ci si salva insieme agli altri e non cercando di vincere sugli altri. E neppure dimenticando gli altri.
Ovviamente questi scenari sono orientati alla positività. In una crisi epocale – in una versione della terribile apocalisse antica, carestia, guerra ed epidemia, in chiave contemporanea e immateriale – una cultura orientata alla competizione individualistica e disperata può uscire in modo molto più violento e distruttivo. Non c’è alcuna certezza del fatto che l’umanità sappia uscire da qui in positivo. L’incertezza regna sovrana, mina gli animi e favorisce la sfiducia. Purtroppo. Ma esistono altri scenari, come si è tentato di dire qui. Scenari che alla fine si riassumuno in uno: le condizioni culturali potrebbero evolvere a favore di un sistema di automatismi e mentalità nuovi, tali da favorire un approccio egoisticamente altruistico alle scelte.
Almeno una certezza si può coltivare: la generosità ci potrebbe salvare.
Segnali:
Leadership in a crisis
Fake spreading, Walter Quattrociocchi e altri
Resilienza, di Luca Chittaro
Generosity, Thomas Friedman
Photo by Elaine Casap on Unsplash
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