Esiste un genere, il giornalismo dell’innovazione, che si occupa di informare su un argomento trasversale, dai confini labili, dall’importanza crescente. Un pezzo di Brian Rashid su Forbes offre un’idea:
Innovation journalism is a form of journalism that cuts across the traditional story areas. Instead of just being limited to writing about one field or area, i.e. politics, technology, celebrity or sports, innovation journalism covers the whole story. Where traditional journalism relies on silos, innovation journalism eliminates them. Where traditional journalism sees various areas as unrelated and disjointed, innovation journalism sees them as corresponding and united.
Il problema è che ovviamente questo richiede un metodo innovativo ma altrettanto rigoroso. In effetti, quando una notizia è associata all’innovazione, dopo averla documentata accuratamente come si fa per ogni buon giornalismo, si compie un passaggio meno facile da verificare: che sia innovazione lo si può sapere in futuro. E come si fa? Spesso si adotta un “non-metodo” banale: copiare. È pericoloso: genera mode e bolle. Finisce male. Oppure ci si adegua all’autorità: lo ha detto l’università tal dei tali, lo ha detto l’azienda tal dei tali. Meglio, ma non basta, perché anche le autorità sbagliano. E allora occorre avere una propria esperienza dell’innovazione per riconoscerla. I giornalisti dell’innovazione devono fare innovazione, per conoscerla. E devono essere al servizio di un network di innovatori che possano leggere i fatti e riconoscere tra questi l’innovazione. Il tutto, come dice Forbes, in un contesto che impone un rinnovamento dei modelli di business.
Ci torniamo, se interessa. IL contesto del giornalismo peraltro merita una ripresa di riflessione. Questa qui sotto era la prima bozza di un pezzo uscito sul Sole 24 Ore la settimana scorsa.
“Nell’anno 2000, gli umani hanno archiviato un quarto delle loro informazioni su un supporto digitale. Il resto era su carta, plastica e altro. Quindici anni dopo, la quota digitale delle informazioni registrate è arrivata al 98 per cento, secondo i calcoli di Martin Hilbert, dell’università di California. Se ne deduce che la tecnologia digitale non è il futuro, è il presente: per tutte le industrie culturali e creative. Compresa l’editoria. Il pubblico cui i giornali si rivolgono vive in un ambiente arricchito di informazioni cui accede ovunque con lo smartphone. Certo, questo è vero in proporzioni decrescenti con il crescere dell’età delle persone. Ma la questione delle “nuove tecnologie” è risolta: non sono più nuove.
I giornali si adattano al cambiamento. Se però lo fanno stando sulla difensiva rischiano di innescare una spirale negativa che abbassa sia i costi che la qualità. Il problema in effetti è come passare al contrattacco, con una certa ambizione: perché non dovrebbe venire proprio dai giornali la prossima grande innovazione?
Adattarsi vuol dire innanzitutto ripensare. Il giornale non è la sua carta: è la cultura della comunità di chi scrive, disegna, programma, assembla, legge, commenta e usa il giornale; è la testata che ne sintetizza la promessa; è il metodo con il quale è scelta l’informazione rilevante. Il giornale è dunque un “luogo di senso” nel quale le persone si incontrano non perché si piacciono, come su Facebook, ma perché devono fare e decidere qualcosa insieme: nello stesso territorio, nella stessa economia, nella stessa nazione, nello stesso pianeta. E per fare o decidere devono sapere come stanno le cose. Ma questo è anche l’inizio del rilancio.
I vincitori della grande trasformazione – Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft – sono piattaforme che organizzano la circolazione dell’informazione, ma il loro valore è direttamente correlato con il valore di quanto fanno e comunicano gli utenti. Inoltre, le loro attività “core” hanno cominciato a rallentare. Il mercato degli smartphone, per esempio, ormai cresce solo a una cifra, il 7%, secondo Gartner. E da tempo gli utenti di Facebook o Google hanno smesso di aumentare impetuosamente. Si avvicina l’asintoto soprattutto nelle economie più ricche e nei mercati maturi. Gli editori hanno perso terreno per non aver visto come il futuro stesse inesorabilmente arrivando: ma oggi hanno compreso che il tema strategico è dimostrare il valore di leggere il giornale. La soluzione passa per la qualità dell’informazione, la fiducia degli utenti e l’ingaggio delle persone. Facebook, Apple e Google non cessano di introdurre funzioni che servono a mantenere attive le persone, a dare loro la sensazione di garanzia per la privacy o di difesa dalle intrusioni, e studiano ogni modo per coinvolgere di più le testate tradizionali nelle loro piattaforme. In effetti, la fiducia nelle notizie che gli utenti trovano nelle piattaforme è legata alla credibilità delle loro fonti originali e – come mostra una recentissima ricerca dell’American Press Institute – se quelle fonti sono testate giornalistiche la credibilità aumenta sensibilmente. Questo è un punto di forza dal quale ripartire. Se c’è una costante nell’arrembante cambiamento instaurato dall’avvento di internet è che esiste sempre l’ipotesi di costruire la prossima grande innovazione. E avendo perduto per miopia la fase di espansione quantitativa della digitalizzazione dei media, gli editori tradizionali hanno ora l’opportunità di scrivere la prossima fase: quella nella quale si cerca di aumentare il valore ricostruendo la qualità.
Ma occorrono scelte decise. Gli editori hanno perso il potere di chi controllava le risorse scarse del mercato: lo spazio dove pubblicare e la tecnologia che controlla l’accesso all’opera sottoposta a copyright. Nel contesto digitale lo spazio per pubblicare è virtualmente infinito e ciò che è scarso è il tempo e l’attenzione del pubblico: ciò che vale è dunque la rilevanza del servizio offerto al pubblico. Le testate giornalistiche sono un valore essenziale se sono associate, appunto, a tale rilevanza.
Il problema per gli editori è naturalmente quello della definizione di un modello di business per sfruttare questo punto di forza. Da un certo punto di vista, questo sta generando una sorta di divaricazione strutturale tra le strategie che seguono il fatturato pubbliciario e quelle che puntano sugli abbonamenti. Non mancano le iniziative che puntano a conquistare una grande quantità di traffico: Buzzfeed da un lato e Daily Mail dall’altro sembrano andare direttamente in questa direzione e non per nulla il confine tra spettacolo e informazione si sfuma, sicché la tentazione di uno scadimento della quantità per alimentare la quantità è sempre presente. D’altra parte competono con i giganti efficientissimi della gestione del tempo e dell’attenzione online, come Facebook e Google. Per i giornali che invece puntano a conservare un’identità da servizio di informazione, il valore aumenta soltanto aumentando la qualità. Se scelgono la qualità, possono puntare a sviluppare i modelli di business che li rendono liberi: gli abbonamenti sono attualmente la forma più efficace. Che peraltro si trova negli spazi dimostrati da Netflix, Spotify e la stessa Apple Music. E se riescono, i giornali in questo modo possono anche tentare di alzare il listino della pubblicità. Il punto è che per riuscire a vincere in un mercato di abbonamenti, gli editori devono dimenticare quella loro forma di arroganza appresa all’epoca del monopolio dell’informazione e devono imparare a servire il pubblico con la stessa precisione e dedizione dimostrata da quelle piattaforme. Amazon, come Netflix e altri, dimostra che siamo nel tempo della qualità. Del servizio come del prodotto. Ridefinita così una nicchia economica nella quale l’impresa editoriale dimostra di poter generare valore, la testata giornalistica può candidarsi a diventare protagonista di una delle prossime grandi innovazioni.
Già, perché se tutto si gioca sulla qualità del prodotto giornalistico, vale la pena di ricordare che cosa sia: la qualità del giornale discende dall’applicazione di un metodo di ricerca e produzione che punta in modo preciso all’accuratezza, all’indipendenza, alla completezza, alla legalità, alla verifica delle fonti e alla documentazione dei fatti. Ma se questo è vero si può anche dire che il successo dei giornali di qualità del futuro corrisponde alla vitalità dello spazio civico dei cittadini informati. Dove le persone non si incontrano perché si piacciono, ma perché convivono in un territorio e accettano di decidere insieme seguendo le stesse regole. Ne emerge una fondamentale convinzione: la prossima grande innovazione è un insieme di giornali-piattaforma dedicati al servizio di una cittadinanza informata che delibera democraticamente.”
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