Un’abitudine all’autocolonizzazione culturale abbassa l’autostima degli italiani. Pur di non dire che un’istituzione italiana è migliore di altre, gli italiani preferiscono sottolineare il valore degli stranieri.
Vabbè è uno sfogo. Ma da dove viene questa riflessione oggi?
Un articolo sul Corriere di Luigi Ippolito si intitola: Londra, ecco la prima laurea mista in materie umanistiche e scientifiche (occhiello “il lavoro del futuro”).
A Pisa, dal 2002, esiste un corso di laurea in “Informatica Umanistica“. Con orgoglio ci tengo un corso di “Knowledge management” da un paio d’anni.
Lasciamo perdere. La notizia non è nell’essere arrivati prima o dopo. La differenza casomai è la qualità del contesto nel quale questi corsi si sviluppano.
A Pisa tutti gli anni gli studenti si domandano che cosa sia questo corso dal punto di vista professionale. Il contesto è certamente meno consapevole della comunità che lavora a “informatica umanistica”. A Londra, a quanto pare, sono certi che questo nuovo corso serva. Perché i problemi sono “interdisciplinari”. E le aziende che sostengono questo nuovo corso dimostrano che dal punto di vista professionale, il prodotto del corso è destinato a servire.
Nel frattempo, molti Politecnici hanno sviluppato corsi dedicati a materie umanistiche. Esiste addirittura la materia “digital humanities”: ha una ventina d’anni e ultimamente sta diventando qualcosa di molto complesso e interessante. Anche i Politecnici italiani si stanno dotando di questa sensibilità.
Ma resta ancora molto da fare. Se il contesto non aiuta gli aspetti profondi della ricerca si fanno più sottili. Ed evolvono. A Pisa si fa ricerca proprio all’intersezione delle culture tecniche e umanistiche. Di certo non si parte dall’interdisciplinarietà, non nel 2019 almeno, ma dalla consapevolezza della unità sostanziale della conoscenza e dell’esperienza umana.
In futuro devono nascere corsi che non siano la giustapposizione di termini nati da settori disciplinari diversi. Ma corsi dedicati ad argomenti intrinsecamente interdisciplinari, tali da non poter essere trattati se non da una ricerca e una cultura sintetica, nella quale tecnica ed esperienza umana vivono in simbiosi. E vedo che questi tentativi si fanno avanti. Anche in Italia.
Meglio smetterla di essere provincialmente succubi del fascino culturale altrui e cominciare a elaborare su quello che stiamo facendo. Perché si può fare una scommessa. Se davvero il lato umano della società della tecnica sta diventando importante, gli italiani hanno qualcosa da dire.
Caro De Biase, mi fa piacere leggere questa tua riflessione (ti do del tu perché i nostri percorsi si sono incrociati ai tempi di Mediamente in RAI). Ti vorrei segnalare però che di corsi di laurea in informatica umanistica in Italia ce ne sono 4 (tutti in facoltà umanistiche), uno a Bologna in Inglese che ha avuto 150 domande, e uno è in partenza a Catania; ci sono decine di insegnamenti e numerose summer e winter school (la più recente si è chiusa a oggi a Palermo). Per non parlare dei libri, articoli e progetti di ricerca da oltre 40 anni. C’è persino una società scientifica (AIUCD), che organizza un convegno annuale con una media di 150 partecipanti, e pubblica una rivista scientifica (Umanistica Digitale). E ci sono infine consolidati rapporti con le associazioni internazionali e una forte presenza nei convegni di settore in tutto il mondo (il sottoscritto e la collega Elena Pierazzo – che insegna a Tours ma ha iniziato proprio a Pisa – sono Chair di DH2019, LA conferenza globale di settore). Insomma, mi pare che purtroppo provincialisti e poco propensi a sapere a capire sono solo alcuni giornalisti. Ma questo non vale solo per l’informatica umanistica (e non vale per tutti i giornalisti come dimostra il tuo caso).