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Dalla post-verità alla post-scienza… Germania, Elsevier, open access, “predatory publishing”

La Germania rifiuta di pagare Elsevier per gli abbonamenti alle riviste scientifiche delle università. L’editore di tante riviste scientifiche fa oltre il 40% di margine di profitto sul suo fatturato. Continua ad alzare il prezzo degli abbonamenti. Non paga coloro che fanno la peer review, si fa pagare molto per concedere l’accesso alla lettura degli articoli scientifici. Per converso i contribuenti pagano la ricerca pubblica, gli stipendi dei professori che fanno la peer review degli articoli, gli abbonamenti delle università pubbliche. La cosa non può funzionare più così, dice la Germania, che apre un braccio di ferro con Elsevier. Un confronto che per ora si è fermato a un nulla di fatto e che sembra portare nell’immediato all’impossibilità per i ricercatori tedeschi di accedere alle riviste (Infodocket, Goettingen, BoingBoing).

Di fronte all’incongruenza denunciata dai tedeschi e del tutto condivisibile, il modello opposto è quello dell’open access. Che non sarebbe male. La ricerca è pubblica dunque viene pubblicata su siti aperti a tutti coloro che vogliano leggere. Ottimo. Ottimo? Il problema è che questi siti si sostengono facendo pagare la pubblicazione agli scienziati che pubblicano. Anche 1500 euro per articolo. La peer review che viene pure fatta è meno stringente, anche perché un articolo rifiutato è un’entrata in meno. E poi alcuni siti di open access sono relativamente seri. Altri sono definiti “predatory”. Pubblicano qualunque cosa senza critica, fanno spam tra i ricercatori per convincerli a pubblicare con loro, hanno nomi altisonanti e credibili. E gli utenti dei social network che non sono abbastanza attenti ne citano gli articoli come se fossero scienza vera. Generando oscuramento della conoscenza sempre più grave (Nature, Wikipedia, ResearchGate, StatNews).

ps. Accogliendo la parte più costruttiva del commento che si trova sotto e ringraziando chi l’ha fatta, penso che una frase del post (“Il problema è che questi siti si sostengono facendo pagare la pubblicazione agli scienziati che pubblicano”) andrebbe modificata in questa: Il problema è che alcuni di questi siti si sostengono facendo pagare la pubblicazione agli scienziati che pubblicano.

15 Commenti

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  • C’è molto ma molto di più. Dato che in un numero tristemente di paesi l’accesso al lavoro in ambito accademico e di ricerca è vincolato a graduatorie dipendenti dal numero di articoli pubblicati su queste riviste, il “mercato degli articoli” è controllato in maniera strettissima da ristrette lobby di docenti e ricercatori che decidono chi pubblica e chi no, in barba al sistema (utopistico) della peer-review. Non è difficile averne una veloce prova: basta andare a vedere chi sono i membri dei comitati editoriali delle principali riviste e chi ci pubblica in maggior numero. Va fatto un controllo incrociato e si vede subito cosa voglio dire.

  • … veramente l’Open Access è ben altro. Questa è solo la parte becera di chi lo sta sfruttando. Ma in Italia passa solo questo tipo di messaggio, ed è sconfortante. Basterebbe informarsi prima di scrivere : su cosa sia l’Open Access (www.oa.unito.it), sul fatto che la Commissione Europea abbia sposato l’Open Access per pubblicazioni e dati, sul costo smisurato degli editori scientifici – stanno girando tweet in questi giorni – altro che 1500 dollari ad articolo: con gli abbonamenti tradizionali, sono 5000 ad articolo, come ha dimostrato la Max Planck, sul fatto che le riviste tradizionali e la spinta a pubblicare generino “the less reliable science” (vedere il blog di Bjoern Brembs) e che le ritrattazioni siano quotidiane (vedi il blog Retraction Watch)… insomma, forse, valeva la pena informarsi a scriverlo diversamente, questo articolo, perché così non fa che alimentare pregiudizi e disinformazione. Grazie

    • Sono d’accordo: in fondo, qualunque scritto “si poteva scrivere meglio”. Anche il suo commento. Che non tiene conto di quello che ho sempre scritto sull’open access, perché non ha cercato di conoscere quello che penso, perché come in ogni dibattito post-truth che si rispetti ha voluto semplicemente polemizzare. Questo lo aveva visto? http://blog.debiase.com/2013/05/10/link-letture-per-domani-open-access-insicurezza/ : è di tre anni fa… Se non vuole che si parli dei predatory sbaglia. Se non vede che la prima parte del post era critica nei confronti di Elsevier sbaglia. Se mi spiega bene che cosa si può fare per ridurre il problema le sono grato..

  • Questo è un post su un blog. I confini di contenuto sono quelli che ha esposto, e di questo si può parlare. La pretesa che si debba leggere per intero il suo blog per sapere come la pensa mi pare piuttosto egoriferita, e vale per lei come per chiunque. Se poi dice cose contradditorie qui o altrove, direi che non può essere un problema del lettore. Può darsi che in altre occasioni abbia parlato bene dell’OA ma qui non lo fa, e chiunque sostenga e conosca l’Open Access non può che restare male di fronte ad affermazioni riduttive come l’assunto di partenza. Come arginare il fenomeno? Non è difficile, si fa seguendo lo stesso metodo scientifico con cui si esegue una ricerca: informandosi, valutando in rete, controllando attentamente i siti dei periodici predoni, consultando https://scholarlyoa.com/ che è la bibbia che raccoglie tutte le informazioni per accertarsi che un certo periodico, o editore, non sia un predone, o chiedendo supporto o consiglio alle biblioteche universitarie, che in linea generale monitorano il fenomeno.

    • Non capisco questo tono. Voi non attaccate il post ma la persona. Quindi la persona pretende di essere conosciuta. Se parlate del post, sono come sempre aperto a qualsiasi contributo che aiuti i lettori. Le liste di siti predatori sono citate. Ma non sapendo quali sono le più affidabili non vado oltre il generale. Se volete aggiungere informazioni fate bene a tutti. Tenete presente che il post è rivolto esplicitamente non agli scienziati quanto ai frequentatori dei social network che rischiano di citare fonti predatorie senza sapere come riconoscerle: lo scopo era essenzialmente fare sapere loro che esiste questo rischio.

  • E’ anche perché si conosce il suo profilo che si resta un po’ sorpresi da questo post. Che contributo positivo si può dare al dibattito se non si rende conto dei diversi modelli di Open Access, ma limitandosi agli esempi criticati e combattuti dalla stessa comunità Open Access, che lavora da oltre dieci anni per rendere pubblica la ricerca pubblica, cercando e proponendo modelli sostenibili per atenei ed editori? E’ in gran parte grazie a loro, se gli atenei europei cominciano a ribellarsi. Dare nomi e voci a questo lavoro, più che accordargli un semplice nota di esistenza attraverso un “alcuni”, sarebbe un contributo prezioso da parte di un comunicatore della scienza come lei. E ne abbiamo bisogno.

    • Certo. Grazie. Ogni post può essere migliorato lavorandoci insieme. Ripeto che qui siamo nel contesto della post-truth, non nel dibattito sull’open access. Nella post-truth il tema è che nelle piattaforme circolano segnalazioni di ogni genere, fatte da persone che anche in buona fede citano fonti di ogni genere e che non si può pretendere siano consapevoli come scienziati di questa storia dei siti predatori. Quindi vale la pena di dirlo. Sarebbe fantastico se fosse più facile per tutti trovare il modo di difendersi. E credo che proprio i sostenitori dell’open access (come modestamente il sottoscritto e il ragionamento nel post sui costi dei sistemi non aperti lo ricorda velocemente) possano e debbano essere impegnatissimmi nel far sapere, denunciare e combattere i predatori. Citarli non è sbagliato. Spiegare che l’open access non è solo questo è doveroso. Trovare il modo di correggere in modo facile anche per i non specialisti la questione è un bene. Forse queste liste possono diventare parte degli algoritmi delle piattaforme, come nell’anti-spam? Forse. Può bastare? Non credo. Occorre che si sappia che esistono queste cose anche tra i non specialisti… Imho.

  • “La peer review che viene pure fatta è meno stringente”: è pericoloso diffondere simili miti senza nemmeno spiegare su quali dati o indizi si basi la propria convinzione. A proposito di post-verità.

    • Quando dice “miti” intende “fatti non veri”? Ovviamente conosce il caso del paper passato alla peer review di Plos One, pioniere dell’open access e che tutti noi consideriamo importantissimo esempio della strada giusta per migliorare l’accesso, nel quale si parlava di “disegno intelligente” senza che i revisori se ne fossero accorti (il paper è stato poi ritirato): la storia su Nature è qui.. http://www.nature.com/news/paper-that-says-human-hand-was-designed-by-creator-sparks-concern-1.19499

      Come vede non si tratta di fatti non veri. E neppure di miti. Si tratta di fatti.

      Nessuno pretende che non si possa sbagliare. E io mi sbaglio troppo spesso. Ma mi pare che la vostra insistenza su questo post sia condotta su un piano poco costruttivo.

  • Grazie per aver indicato i “fatti” su cui si basa la lapidaria e apodittica dichiarazione liquidatoria dell’articolo. Registro che si tratta di una mera generalizzazione su base aneddotica, in altre parole di una congettura indimostrata. Anche i sostenitori del creazionismo del resto giocano propagandisticamente sui termini “teoria” e “fatti”, approfittando della scarsa conoscenza popolare del metodo scientifico.

    A proposito di essere costruttivi, un’iniziativa come https://oa2020.org/mission/ dimostra chiaramente una volontà molto costruttiva di condividere apertamente i costi e i pesi della rigorosa pubblicazione della ricerca scientifica, smantellando però monopoli e taglieggiamenti (anche se c’è chi preferisce strategie fondate sul green OA). L’articolo e il suo aggiornamento dimostrano invece che non è nemmeno stato letto il materiale collegato dall’annuncio di Göttingen, o approfondimenti come quelli indicati da Elena Giglia.

    Per esempio, davvero crede che le APC siano pagate dagli scienziati? O era solo una comoda scorciatoia retorica? Ovviamente anche queste tariffe sono pagate normalmente con fondi di ricerca, come gli abbonamenti medesimi; però almeno comprano qualcosa che è utile per tutti. Le università tedesche stanno quindi cercando di interrompere la crescita ininterrotta degli abbonamenti e di passare a un modello dove rimborsano i costi effettivi di pubblicazione in cambio di un accesso pubblico generalizzato alla ricerca pagata con fondi pubblici. E di fronte a uno schema complesso del genere ci troviamo commenti da bar come il suo; capirà che cascano le braccia.

    • Bene. Cerco di distinguere i suoi commenti personali dalle informazioni che sottolinea. Cerco di riprendere anche gli interventi precedenti e quelli fatti su Facebook. Di che cosa stiamo parlando?
      1. Del giudizio sulla superiorità dell’open access per la pubblicazione di articoli scientifici rispetto a quella effettuata con editori for profit?
      2. Della migliore allocazione delle risorse pubbliche e private per la ricerca scientifica? Con quali tipi di open access? Verde, oro…
      3. Della qualità della peer review operata nei vari schemi di pubblicazione open access? Ci sono dati, fatti, aneddoti, modelli, dibattiti?
      4. Della propensione dell’autore di questo blog a parlare con linguaggio da bar? Dell’insipienza della stampa? Dell’ignoranza degli italiani?
      5. Dei rischi per il pubblico in generale che non conosce tutte le cose che gli specialisti conoscono e però è in condizione di citare qualunque cosa venga pubblicata?

      Forse c’è dell’altro. Ma non mi viene in mente ora.

      Ebbene.

      1. Per quanto riguarda il giudizio sulla superiorità dell’open access basta leggere il post tanto vituperato per vedere che anche l’autore di questo blog la pensa così. Tutta la prima parte parla dell’assurdità del modello “for profit” e la seconda parte inizia dichiarando “del tutto condivisibile” la posizione tedesca in materia. Se non si legge bene, sarà perché è scritto male. Ma devo dire che mi pare abbastanza chiaro.
      2. Le risorse pubbliche che finanziano la ricerca, le biblioteche, l’educazione e il bene comune della diffusione della scienza sono allocate meglio nell’open access. Lo pensa la Germania, l’Europa, l’Economist e chiunque faccia due conti. Con il for profit, una parte dei costi pubblici vanno nell’eccessivo profitto di certi editori privati. Si vede gente di Elsevier in ogni luogo nel quale si può fare lobby a Bruxelles. Segno che temono regole nuove. Per adesso, se non ricordo male, il sistema for profit regge ancora un 80% delle pubblicazioni peer reviewed (cercherò i dati meglio). Questo fa pensare che ci sia un motivo. Ma non sembrerebbe direttamente economico. Peraltro, bisogna ammettere che nell’open access a pagamento per la pubblicazione (Plos fa pagare tra 1500 e 2900 dollari, a quanto pare) fa risparmiare le biblioteche, spesso pubbliche, ma ovviamente costa ai centri di ricerca che in certi casi sono costretti a riallocare budget dalla ricerca alla pubblicazione (il dibattito esiste anche nel pubblico; Wellcome Trust sta spostando una parte del budget dalla ricerca alla pubblicazione in open access, il costo per i centri di ricerca minori può essere proibitivo tanto che diversi giornali open access fanno prezzi di favore o lavorano gratis per i ricercatori del mondo in sviluppo). Ovviamente ci sono molti modi per pubblicare senza pagare nulla, anche in autopubblicazione. Ma a questo punto si va al prossimo argomento.
      3. Ci si preoccupa che il costo per pubblicare significhi un incentivo ad accettare la pubblicazione e una riduzione della severità del processo di valutazione. È chiaro che questo sarebbe un disastro per i giornali che lo facessero. Ci sono stati casi (aneddottici) di gravi errori di valutazione anche nei migliori giornali open access (come ci sono stati gravi casi aneddotici di errori nei giornali for profit). C’è stata una controversa sperimentazione che ha mostrato come un 60% (vado a memoria) dei giornali open access hanno accettato articoli artatamente falsi ma si è detto che gli sperimentatori avrebbero dovuto fare un controllo incrociato sottomettendoli anche ai giornali for profit. Nel caso citato nel commento precedente e raccontato da Nature il modello interpretativo secondo il quale l’incentivo ad accettare sarebbe più forte nei giornali open access è stato ribadito. Considerare questa ipotesi non è fare delle congetture indimostrate ma richiamare un modello interpretativo esistente. Si può e si deve fare meglio di così per discutere di tutto questo? Sì. Per quanto mi riguarda, io credo che la valutazione della ricerca scientifica, la verifica, la ripetizione degli esperimenti, la peer review e tutto il resto siano l’essenza della scienza: e spero che migliorino. Ma non stanno migliorando. Mancano i depositi dei dati comuni, mancano i software comuni per analizzarli, mancano le certezze sulla qualità della peer review. I tutti i modelli di pubblicazione! E trovare gli incentivi giusti per migliorare la peer review è un obiettivo che dovrebbe essere condiviso. Soprattutto dai sostenitori dell’open access.
      4. Tutte queste considerazioni sono soggette a verifica. Sono assolutamente deciso a studiare meglio tutto questo argomento. Ringrazio tutti i suggerimenti che sono arrivati. Assicuro che sto seguendo tutte le indicazioni costruttive che sono state pubblicate in questi commenti e altrove. E farò un altro post su questa questione. Accetto ogni critica. E cerco di usare queste critiche come occasioni per imparare. Non sono d’accordo peraltro con molte delle affermazioni che, per “congetture indimostrate”, condannavano l’autore di questo blog al rango di chiacchieratore da bar. Se ogni passaggio scritto nel post è discutibile è anche vero che non è infondato. Può essere – ed è – incompleto. Può essere tagliato con l’accetta. Ma qualunque persona intellettualmente onesta vede che anche le accuse lanciate e rilanciate in questi commenti e altrove erano altrettanto incomplete, superficiali, indimostrate, imprecise e tagliate con l’accetta. Facile retoricamente prendersela con la stampa italiana e con il dibattito italiano. Tutti sono d’accordo in Italia con queste affermazioni fatte su Facebook all’inizio di questa incredibile polemica. Ma il fatto è che in tutti i paesi ci sono queste discussioni. E la varietà di soluzioni open access finora trovate hanno tutte trovato i loro critici oltre che i loro difensori.
      5. Non c’è dubbio che il mondo dei “predatori” è monitorato. Le liste di siti predatori sono continuamente aggiornate. Se si guardano i numeri di siti in quelle liste si vede che crescono velocemente. Significa probabilmente che ce ne sono – è una congettura – sempre di più nella realtà di quelli che sono nelle liste che, appunto, quando vengono aggiornate segnalano sempre nuovi e più numerosi siti predatori. Ma tutto questo gli scienziati, i bibliotecari e gli specialisti lo sanno. Non lo sa la gente che usa liberamente la rete e che rilancia cose che legge online. Nella questione della post-truth questo fatto è diventato dirompente. Di rilancio in rilancio si fa credere qualunque cosa. Nelle echo-chamber si accettano tutte le notizie – vere o false – che piacciono al conformismo locale e si rigettano tutte le notizie che non vanno bene. Usare citazioni da siti predatori è facile in queste condizioni. Vale la pena di ricordarlo anche in un post come quello che ha dato luogo a tutta questa discussione. Tacerlo non fa bene. E non è perché l’Italia è un posto che non accetta l’open access o non lo valuta abbastanza. Farò delle verifiche prima di riscriverne, ma ho l’impressione che gli italiani usino l’open access come gli altri. Citare i predatori è giusto. Non è un attacco all’open access. È la preoccupazione dei veri sostenitori dell’open access quella di vincere contro i predatori, denunciandone l’esistenza ogni volta che si può. Imho.

      Tutto questo non basterà certo a placare la sete di polemica e non sarà mai sufficiente a convincere chi non voglia ascoltare. Mi dispiace per tutte le incomprensioni suscitate da questo post che sono certamente molto più responsabilità del suo autore che della disattenzione o dei pregiudizi dei suoi commentatori. Tornerò a studiare la questione e se ci riesco a fare un altro post sulla materia. Tutti i dati citati in questa risposta vanno riverificati perché li ho citati a memoria (cosa comprensibile forse in una veloce risposta a un commento di post). Di certo andrò a cercare i dati aggiornati appena possibile. Se qualche commentatore volesse aiutarmi sarà il benvenuto. Grazie a tutti i partecipanti al dibattito.

  • Grazie. Prendo atto dell’indubbio sforzo di documentazione e riflessione. Condivido certamente lo spirito generale delle osservazioni e cioè che anche nell’open access si debba fare di piú e meglio, e credo che tutti i principali promotori dell’OA ne siano consapevoli (basta sfogliare il blog OpenAIRE per averne un esempio).

    Continuo a pensare che una frase “il modello opposto è quello dell’open access. […] La peer review che viene pure fatta è meno stringente” sotto un titolo “Dalla post-verità alla post-scienza” sia, se non disinformazione, quantomeno una provocazione sensazionalista, la risposta alla quale non è sorprendente. Ma archiviamolo pure come un incidente sul percorso per un successivo articolo a freddo.

    Tornando all’argomento iniziale, nel frattempo è uscito questo articolo che sicuramente spiega la posizione e la strategia delle università tedesche in modo piú esteso e chiaro di quanto fosse stato prima del 20 dicembre quando ha scritto il suo articolo: http://www.sciencemag.org/news/2016/12/thousands-german-researchers-set-lose-access-elsevier-journals . Si vede che la mossa contro Elsevier è funzionale anche alla risoluzione di alcune delle criticità da lei segnalate (per esempio si chiede di eliminare il pagamento degli APC su base individuale: «DEAL’s goal, he says, is to move away from subscription fees and toward a model in which the institutes pay a flat fee for “article processing charges,” so that all publications become fully open access.»).

  • Helping journals to improve their publishing standards: a data analysis of DOAJ new criteria effects
    http://leo.cineca.it/index.php/jlis/article/view/12052

    Nuova risorsa: un articolo che illustra e misura le contromisure adottate per migliorare la qualità delle riviste ad accesso aperto. In sintesi: i criteri di DOAJ funzionano ed è possibile isolare le riviste rigorose da quelle mal gestite; il famoso articolo del 2013 citato al punto (3) del commento di sopra può dirsi superato (cioè ha raggiunto il proprio obiettivo; ora bisogna continuare a lavorarci).

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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