Un pezzo di David Streitfeld, sul New York Times, segnala il panico che si sta diffondendo tra gli editori di libri americani per effetto dell’aggressiva politica di Amazon sui loro autori. Amazon sembra intenzionata a disintermediare la filiera produttiva editoriale mettendo direttamente sotto contratto gli autori per sostenere la sua soluzione di self-publishing con la quale chi scrive un libro lo può pubblicare e vendere senza passare da editori, agenti, librerie, e quindi ottenere una quota molto maggiore del valore aggiunto generato con il suo lavoro.
Non è che ci volesse molta intelligenza per capire che sarebbe successo. Se ne parla dal 1995. Certo, con l’avvento degli ereader o tablet di successo, dal Kindle all’iPad, il processo sembra aver subito un’accelerazione significativa.
L’ipotesi strategica deriva dalla storia dell’editoria. È un’ipotesi centrata sulla tecnologia.
Secondo Adrian Johns, la filiera editoriale come oggi la conosciamo è partita dalla tecnologia della stampa. Gli stampatori avevano scoperto di poter pubblicare con successo non solo i libri di pubblico dominio, come la Bibbia, ma anche i libri di attualità. A partire dal Cinquecento e fino a tutto il Settecento, proprio gli stampatori riuscirono a ottenere il riconoscimento da parte dello stato del diritto esclusivo temporaneo della pubblicazione di certe opere scritte. Partendo dalla tecnologia e arrivando al copyright costruirono la loro industria.
Oggi gli editori tradizionali non controllano più la tecnologia. Tentano di salvaguardare il copyright come principio. Ma non possono obbligare gli autori a cederlo proprio a loro. La competizione tra gli editori si è complicata con l’arrivo di nuovi protagonisti, come Amazon, che guardacaso, sono quelli che controllano lo sviluppo della nuova tecnologia per pubblicare, leggere, distribuire e vendere i libri.
Si direbbe che la tecnologia sia il punto di partenza dell’industria editoriale. Ovviamente la cultura e la produzione autoriale si appoggiano in parte su questa industria, ma hanno una dinamica relativamente indipendente e possono spostarsi da un’industria a un’altra, da un modello di business a un altro. Per gli editori, invece, la tecnologia è decisiva: perché chi controlla la tecnologia ha le carte vincenti per controllare il flusso del denaro.
Oggi gli editori hanno la chance di difendersi. Ma solo imparando la tecnologia e cominciando a innovare a loro volta. Altrimenti saranno soppiantati dai nuovi innovatori della tecnologia per la pubblicazione.
In questo caso, la filiera editoriale attualmente conosciuta si spaccherà in molte diverse funzioni: scelta e valutazione del valore qualitativo delle opere, marketing, editing, titoli e copertine, forme di archiviazione, e così via. Non c’è ragione perché queste funzioni spariscano: anzi, dovranno crescere. Non c’è ragione perché non continuino a essere svolte dai vecchi editori, ridimensionati. Ma non c’è ragione perché non vengano svolte anch’esse da nuovi soggetti.
L’editoria tradizionale, dopo quindici anni di internet, si stupisce ancora delle conseguenze dell’innovazione tecnologica. È ora che smetta di stupirsi e cominci a innovare. La competenza degli editori è ancora enorme e preziosa. Nel tempo, alle funzioni industriali e commerciali hanno aggiunto una rara capacità di influire – spesso positivamente – sulla produzione culturale. Sono diventati a loro volta protagonisti dell’avanzamento culturale. Questa competenza non andrà dispersa, perché anche i nuovi potenziali soggetti emergenti nasceranno da quella storia, ma non è sicuro che l’equilibrio culturale migliore sia quello in cui da una parte ci sono pochissime piattaforme globali e dall’altra ci sono miriadi di piccoli soggetti che fanno gli autori, gli scopritori di talenti, i recensori, i consulenti di marketing, e così via. Un buon equilibrio richiederebbe forme di aggregazione più ampie non solo dalla parte della commercializzazione ma anche dalla parte della produzione di idee. Probabilmente.
In ogni caso da innovare c’è molto. Penso per esempio alle forme di memorizzazione che il sistema della biblioteca con gli scaffali di libri garantivano e che invece si volatilizzano con i reader che a loro volta contengono metafore di scaffali molto meno efficaci per chi debba ricordare dove ha letto che cosa. I reader sono fantastici invece per selezionare e ritrovare le sottolineature e le citazioni, anche se si può fare molto di più di quanto si faccia ora, per aiutare la memoria a non abbandonarsi completamente all’idea che tanto tutto è registrato in una macchina: il pensiero ha bisogno di ricordare non solo di sapere come ritrovare. Ci sono innovazioni nella gestione della conoscenza, ma anche nella valutazione delle autorità culturali emergenti che poche piattaforme tenderanno sempre a dare attraverso formule più o meno quantitative e che invece richiederebbero a loro volta percorsi qualitativi più attenti. Sono solo piccole idee sui filoni di indagine che si possono sviluppare. Del resto, l’archiviazione della conoscenza e il suo riutilizzo sono decisivi per non abbassare il livello complessivo della cultura. E qui c’è tecnologia da innovare. Per adesso le piattaforme surfano sulla superfice del fenomeno. L’innovazione profonda è ancora tutta da fare. Ma qualcuno di certo ci sta lavorando. E quindi per gli editori tradizionali, nell’ipotesi qui formulata, non c’è più moltissimo tempo da perdere. Imho.
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