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L’equilibrio tra aspettative e realtà. Il senso critico. La strategia dell’innovazione. Dalla ricerca di consenso alle decisioni strutturali

Ieri al convegno sul digitale “Direzione Hackathon 2016” che si è svolto al Castello Svevo di Trani ha parlato Francesco Caio, amministratore delegato delle Poste. Oggi ne riferisce Andrea Biondi sul Sole 24 Ore: «Il digitale – dice Caio – è per i nostri anni come la siderurgia per la fine dell’800. Un motore di sviluppo. Ma ci si è chiesti dove si vuole puntare? Il sistema finanziario zoppica e la politica industriale non è granché. Ci si è chiesti come sostenere i centri universitari, sul come attirare i fondi, sulle regole per la fiscalità?». È stata costruita una strategia operativa? «Anche solo pensando alla Pa, una lingua standardizzata nel digitale è un passaggio non facile ma se lo Stato lo facesse sarebbe la migliore spending review».

L’analisi profonda delle opportunità offerte dal digitale non è un gioco di comunicazione ma un lavoro vero. E non se ne esce con degli slogan ma con una scelta organizzativa forte, orientata al lungo termine, non partigiana ma pensata per il bene comune. Viene da paragonare questa impostazione al contenuto della bella intervista a Renzo Piano pubblicata oggi sul Corriere della Sera. Piano parla delle periferie, si riferisce al degrado che produce anche il terreno di coltura delle più violente forme di terrorismo e propone una visione profonda, analitica, orientata al lungo termine. «Dal degrado nasce il male, sì. Vede, la pace è una costruzione che si fa giorno per giorno». Per questo Piano ha trovato quella parola, bellissima: rammendo. Per spiegare quanto sia analitico il lavoro da svolgere: «Penso ancora al nostro Giambellino. Ci sono 393 monolocali vuoti perché misurano 25 metri quando una legge sciagurata fissa l’abitabilità minima a 28,8 metri. Pensi se fossero residenza di studenti, due per appartamento, ottocento ragazzi sui seimila abitanti del quartiere. Si cambia così, e recuperando il parco di via Odazio e aprendo i cortili… così lei porta linfa vitale». Sicché Goffredo Buccini, del Corriere, chiede: «Che cosa si aspetta da Renzi?». E Piano risponde: «Non so». E poi prosegue: «La gente bisogna ascoltarla. Non per fare tutto ciò che ti chiede, perché questa non è partecipazione, è soltanto sbagliato. Ma a volte le voci più importanti sono quasi impercettibili». Già: pensare l’ecosistema dell’innovazione è un po’ come fare urbanistica…

Morale. Una strategia di innovazione per l’Italia, inclusiva e competitiva, non è compatibile con la banalizzazione. Ci vuole analisi critica: e questa non è compatibile con una tattica del consenso oceanico ed entusiasta. Ma è inutile, come testimonia Piano, farsi troppe aspettative sulla politica. È la società che parla sottovoce a creare la realtà.

D’accordo. Tutto questo rivaluta la funzione della critica:
1. la critica della società italiana per correggere la sua tendenza ad affidare troppa importanza al politico di turno rispetto all’innovazione che può essere fatta indipendentemente
2. la critica della politica che talvolta banalizza, non ascolta e affronta i passaggi difficili suscitando troppe aspettative
3. la critica della valutazione di ciò che avviene oggi nella storia italiana per comprendere se sia avviata una fase migliore della precedente.

Sul primo tema, bisogna dire che il grosso della questione dell’innovazione è appannaggio della società e dell’imprenditoria. L’innovazione digitale è soltanto un aspetto della questione del rilancio italiano. Nessuno può dire di aver compreso tutto in materia. Ma un fatto è chiaro: le opportunità per gli italiani non sono mai state così ampie, ma occorre comprenderle a fondo. La prima fase dirompente dell’innovazione internettiana è superata. Siamo di fronte a opportunità molto più radicali, con la robotica, i big data, l’internet delle cose, i nuovi materiali e così via. Siamo di fronte a una trasformazione industriale che promette di condurre a nuovi prodotti e a nuove forme di distribuzione e consumo. Se gli italiani non erano molto forti nella produzione di piattaforme internettiane, ora possono giocare su un terreno che comprendono meglio: quello della competizione per la produzione manifatturiera di oggetti dotati di grande valore immateriale ma progettati e venduti tenendo conto delle opportunità contemporanee. Per esempio studiando come incorporare materiali che possono conferire ai prodotti funzioni innovative di enorme valore e migliore sostenibilità o lavorare per la produzione e la distribuzione di oggetti connessi e sensibili alle condizioni esterne. Per esempio, connettendo la grande industria italiana dell’automazione industriale alla nuova epoca della robotica. E così via. È un lavoro di fondo, che motiva la digitalizzazione, senza essere riconducibile a un piccolo slogan.

Sul secondo tema, bisogna ammettere che non c’è molto di nuovo. Alimentare le aspettative è una tattica che ha valore per qualunque politica. L’equilibrio tra le aspettative suscitate e le realizzazioni distingue però una buona politica. E poiché l’Italia ha conosciuto un ventennio di grandi aspettative non realizzate ha assoluto bisogno di correggere il tiro. Se di parla di innovazione, peraltro, l’equilibrio è tanto necessario quanto difficile. Far credere che una semplice tecnologia possa cambiare la società è una ricetta sicura per la delusione. D’altra parte è abbastanza improbabile che una forte comunicazione orientata a costruire consenso possa tener conto della complessità del rapporto tra tecnologia e società. In un paese conservatore, disilluso e un po’ pigro è giusto fare coraggio con gli slogan: ma come si sa non può bastare. E il rischio che si corre se non si cerca l’equilibrio tra aspettative e realizzazioni è troppo grande per non tenerne conto. Per riuscirci occorre studiare qualcosa di nuovo. Per esempio accelerare in modo concentrato e concreto la realizzazione dei programmi. Senza perdere troppo tempo a comunicarli se non si ha il coraggio di vederli non come una politica partigiana ma come una politica di tutto il paese. Peraltro, dimezzare le spese per l’informatica pubblica come sembra previsto dalla legge di stabilità senza spiegare il piano che dovrebbe fare in modo che le spese rimanenti producano qualcosa di meglio di quanto fatto finora non è un capitolo molto convincente. (Non risulta dai resoconti che ieri se ne sia parlato al convegno del governo a Venaria: se lo si è fatto, forse, un commentatore farà un riassunto?).

Sul terzo punto le impressioni sono chiare. Il quadro interpretativo prevalente per l’Italia sta cambiando. Solo pochi anni fa il racconto dell’Italia era dominato dal frame del declino. Si ha la netta sensazione che non lo sia più. Ma ancora stenta a emergere un nuovo quadro interpretativo: un po’ a causa dell’incertezza dei primi segnali di ripresa e un po’ a causa della distanza tra le aspettative e le realizzazioni. Anche se il tono è decisamente più ottimistico di cinque anni fa, la modernizzazione italiana, ovviamente, richiede tempo: l’equilibrio tra aspettative e realizzazioni è decisivo, dunque un certo eccesso di comunicazione sulle riforme che si intende avviare non aiuta, ma svaluta, la pur straordinaria quantità delle riforme avviate. La credibilità italiana è migliorata a livello internazionale, anche perché prima era davvero ai minimi termini. Ma a livello territoriale si avverte scollamento e fatica a tenere il passo dell’insieme: perché è nei territori che si vedono i risultati, o non si vedono.

Non può essere la politica a indicare tutte le soluzioni e gli italiani che innovano lo hanno compreso da molto tempo. Casomai alla politica spetta il compito di comprendere le scelte strategiche, eliminare il più possibile gli ostacoli alla loro implementazione, creare un clima di stabilità dinamica, necessario alle decisioni di investimento degli imprenditori e dei centri di ricerca.

In tutto questo la funzione del senso critico è più importante della tattica del consenso. Ma qui il gioco si fa duro. Noam Chomsky ed Edward Herman, nel libro “La fabbrica del consenso” hanno modellizzato l’analisi della generazione di stereotipi interpretativi osservando come il ruolo di generazione di pensieri convenzionali della politica sia molto sopravvalutato rispetto al ruolo giocato dagli interessi economici. Nel caso della strategia di comunicazione e informazione sulla innovazione digitale gli interessi economici prevalenti sono espressi dalle grandi aziende nazionali e multinazionali. Il loro apporto interpretativo è più orientato a costruire consumatori e clienti piuttosto che attivi protagonisti dell’innovazione. In Italia la banalizzazione sul digitale rischia di essere compatibile proprio con l’aumento dell’uso del digitale da parte dei consumatori e delle imprese che non lo costruiscono ma lo comprano. È una grave distorsione: perché il bello del digitale è proprio l’opportunità che offre di partecipare attivamente alla generazione di innovazione, senza limitarsi a consumare quella realizzata da altri. Il modello di informazione liberatorio, sul digitale, è particolarmente difficile in Italia. E anche qui occorre il contributo di tutti: gli imprenditori che comprendono come la tecnologia sia uno strumento da alimentare e modificare non comprare a scatola chiusa; le famiglie che coltivano la consapevolezza della relazione di potere instaurata dalle grandi piattaforme e si propongano di salvaguardare i figli da un’istruzione da consumatori invece che da autori; la politica che non si lascia intimidire dal modello interpretativo americano finora vincente ma non necessariamente altrettanto adatto alla nuova fase – molto più europea e industriale – e veda la possibilità di una strategia nella quale il sistema italiano sia protagonista. Altrimenti rischiamo di subire i contraccolpi negativi del cambiamento senza valorizzare le opportunità.

Caio invita a prenderne atto: «Il digitale sarà un’opportunità che il Paese riuscirà a sfruttare solo se si sarà liberi di dirsi le cose come stanno. Alcuni mestieri non servono più. Far finta di nulla è rischioso. Il digitale, in questo, mette a nudo le inefficienze come le opportunità di crescita». Quanto ai dominatori attuali del settore: «Sono esempi di accumulazione rapidissima di valore nelle mani di pochi che possiedono un algoritmo. Bisognerebbe redistribuire le opportunità. I leader cambiano. Non facciamoci narcotizzare dal fatto che non si possa pensare al dopo Google».

Insomma. Tutto questo è una lunga storia. Che continua… Anche qui, speriamo: ascoltando, coltivando il senso critico e adottando l’approccio umile dei ricercatori…

Libri:
Noam Chomsky ed Edward herman, La fabbrica del consenso, Marco Tropea Editore, 1998
Peppino Ortoleva, Il secolo dei media, Il Saggiatore, 2009 (Una sua lezione è linkata qui)
Frédéric Martel, Mainstream, Feltrinelli 2010
Ryan Holiday, Credimi! sono un bugiardo, Hoepli 2014 (Una segnalazione del libro è qui)
Frédéric Martel, Smart, Feltrinelli 2015 (Una segnalazione del libro è qui)

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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