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Autori come imprenditori.. Editori come creatori..

Nell’epoca di internet il business editoriale è in trasformazione. E una possibile via d’uscita è che gli autori semplicemente diventino imprenditori di sé stessi. Luke Johnson, presidente della Royal Society of Arts e leader della compagnia di private equity Risk Capital partners, pone un vecchio problema in modo tanto diretto e sicuro da sfidare a rifletterci sopra di nuovo.

La disintermediazione, si diceva una volta. Oggi si dice, come Johnson, che la quota riservata agli autori dal sistema editoriale tradizionale è un cattivo affare per loro: “Creative types pay a heavy toll to distribute their works, and in “the
internet age” they can and should be doing it for themselves. Be they
painters having to give galleries 50 per cent of the price of their
pictures, or authors getting just 7 per cent of the net proceeds of
their novels from publishers, or singers receiving paltry royalties
from record labels, for many the division of rewards is a bad deal.”

E’ un cattivo affare perché la gente non vede un film perché è incuriosito della major che lo ha prodotto, non sente un brano musicale perché è interessato a quello che presenta un’etichetta e non legge un libro perché ama un editore, dice Johnson: il pubblico presta attenzione a un’opera perché è affasciato dalla visione originale dell’artista o dell’autore. E poiché con internet e il digitale produrre e pubblicare è diventato molto meno costoso, gli autori che diventano imprenditori di se stesso, dice Johnson, possono guadagnare di più. Tagliando fuori gli intermediari. E’ un modo per raccontare la crisi dell’editoria. Ma è un modo per spiegare bene che cosa faranno gli autori?

La pars denstruens è facile. E’ la pars construens che resta difficile. Il che rende il problema interessantissimo. Gli autori possono pensare di fare a meno della produzione, del marketing, del lavoro di agenzia, del supporto legale che gli editori hanno sempre fornito in un unico blocco in cambio della possibilità di rivendere come volevano il copyright. Ma resta il fatto che anche il modello di business non è più quello di una volta: se il copyright non è protetto su internet per gli editori, non lo è neppure per gli autori. Inoltre, è vero che le funzioni di marketing e legale restano importanti e qualcuno le deve svolgere. Infine, non tutti gli autori, concentrati sulla loro visione creativa, sanno e vogliono saltare alla bisogna nella cultura dell’imprenditore.

Ne emerge una visione, ancora tutta da sviluppare, nella quale non abbiamo autori tuttofare, ma neppure editori onnipotenti. L’una e l’altra soluzione sono contrarie alla qualità creativa. Quello che avviene è la fine del bundle editoriale: le diverse funzioni si disaggregano e vengono pagate con una quota del fatturato; il problema è che tutti rischiano, nessuno si siede sul suo privilegio acquisito. Ma si ha l’impressione che sia un problema da affrontare e accettare.

Nello stesso tempo, nasce un insieme di nuove figure. Quelle che creano nuove opportunità imprenditoriali, disegnano contenitori e soluzioni innovative nelle quali il modello di business è comprensibile. Ostinarsi a imporre un copyright sui prodotti digitali registrati e replicabili non è una politica di grande lungimiranza. Scoprire nuovi modi di fatturare – concerti e incontri fisici, esperienze educative, invenzioni promozionali – è una funzione creativa-imprenditoriale nuova che potrebbe diventare decisiva.

Per gli editori si tratta di incorporare questa mentalità. Separare con chiarezza le funzioni, non più basandosi sui silos dei diversi mezzi di trasmissione ma sulla diversità di servizi offerti all’attività autoriale: produzione, marketing, controllo qualità, legale, sperimentazione di nuovi modelli di business, design dei contenitori, ecc ecc. Non tutti gli editori sapranno fare tutto. Ma in quella direzione ricostruiranno una prospettiva per il loro mestiere.

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  • Ciao Luca,
    in questo post l’interrogativo è posto in modo costruttivo evitando di demonizzare la vecchia imprenditoria e auspicando una evoluzione di questa; tuttavia tu indichi l’innovazione di coloro che “disegnano contenitori e soluzioni innovative nelle quali il modello di business è comprensibile”.
    Noi lo stiamo facendo per gli autori che sono anche artisti, per i quali è utile usare la propria musica come veicolo promozionale.
    Abbiamo miscelato il “mecenatismo diffuso” e il copyleft delle Creative Commons. Facciamo leva sulla curiosità che precede la pubblicazione di un nuovo album e contiamo su quella economia del dono che non vuole un ritorno in denaro ma in emozione o utilità diretta.
    Per questo abbiamo fondato BuskerLabel.com
    Un saluto,
    Pancrazio e Giulio

  • ottimo post Luca!! L’approccio autore-imprenditore l’ho utilizzato due anni fa realizzando un libro con Lulu.com che mi ha permesso di approdare per il suo buon successo ad un libro con editoria tradizionale. Il risultato? Continuo a vendere ma soprattutto ad avere maggiori soddisfazioni (un VERO scrittore non scrive per vendere ;)) lavorando da solo e senza un editore, che non è in grado, se piccolo e medio, di garantire visibilità… ma solo una vagonata di inutili costi aggiuntivi.

  • Interessante anche la descrizione di Jeff Jarvis sull’importanza di creare nuovi modelli di formazione e informazione diffusa: http://bit.ly/aRNuTy
    “…and he asked what he could do to compete with brilliant lectures now online at MIT. I said don’t complete, complement…”

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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