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Attenti al loop! (Un approfondimento sul concetto di conversazione)

Conversazione collaborativa e competitiva.

Abbiamo capito che la parola “conversazione” spiega molto di quello che avviene sui media sociali. Ma è tempo di elaborare una strategia per andare avanti con il ragionamento: la parola è precisa, ma non sufficiente a definire una strategia per le strutture che devono attraversare questa fase di grande trasformazione e ridefinire il loro ruolo. Sto pensando, ovviamente, a giornali, università, uffici marketing… In mancanza di una certa chierezza possiamo entrare in un loop equivoco e pericoloso. Mi spiego.

E’ possibile definire come conversazione un talk show? Una conversazione è sempre collaborativa, oppure può essere competitiva? Ci sono tecniche per emergere in una conversazione competitiva?

In una conversazione collaborativa tra amici ci si ascolta e si cerca di informarsi, divertirsi, coltivare una relazione umana.

In una conversazione competitiva si cerca di far prevalere la propria idea su quella degli altri.

Se una conversazione collaborativa avviene online in un contesto adatto, si sviluppa un progetto condiviso e ci si avvicina a realizzarlo con le forze e le competenze di tutti i partecipanti.

Se una conversazione competitiva avviene in un talk show televisivo pensato per mettere a confronto diverse posizioni politiche, l’obiettivo è convincere i telespettatori di un’opinione o almeno impedire ai telespettatori di comprendere le ragioni della parte avversa.

Tra questi due estremi ci sono molte situazioni diverse. E molti equivoci. La prevalenza della nozione di conversazione non è sufficiente a definire un percorso che porti le persone verso un progetto condiviso, verso un avanzamento della conoscenza, o verso un vero confronto di fatti e teorie. La conversazione costruttiva, collaborativa, avviene solo nei contesti adatti. E allora la domanda diventa: internet è sempre il contesto adatto a fare emergere una conversazione collaborativa?

Si può dire che è più probabile che una conversazione collaborativa che faccia contemporaneamente avanzare la conoscenza e la qualità delle relazioni sociali avvenga su internet piuttosto che in televisione. Ma il fatto che avvenga su internet non è sufficiente a definirla collaborativa. Se infatti si applicano anche su internet le tecniche sviluppate per le conversazioni competitive in televisione, ci si parla sopra, non ci si ascolta, si tenta soltanto di far prevalere una posizione. E Arturo di Corinto, su Nòva (4 giugno 2009), ha dimostrato che i partiti italiani hanno pagato ragazzi durante la campagna elettorale per le europee proprio per fare quel lavoro online.

Insomma: la tecnologia internettara consente la conversazione collaborativa; e visto che tante persone ne sentivano tanto bisogno, in effetti su internet è esplosa una vera, grande conversazione. Ma la tecnologia non impedisce la conversazione competitiva: e visto che le strutture che vivono di competizione e non di collaborazione se ne sono accorte, internet è diventata anche il luogo dove ci si scanna come e più che altrove. (Non c’è solo la politica italiana, infatti, per la quale lo scannatoio principale è la tivu e i suoi annessi e connessi; ci sono i siti dell’odio vero, come quelli studiati da Antonio Roversi, docente di Strategie della comunicazione multimediale a Bologna, dall’integralismo islamico, al tifo calcistico, alle organizzazioni di estrema destra e alle forme eversive di ogni colore…).

Qual è dunque il tema? Dov’è che in prospettiva si svilupperà la conversazione collaborativa che tanto ci piace? Direi che questo avverrà in un contesto nel quale ci sarà maggiore consapevolezza non solo dello strumento che utilizziamo, ma anche delle dinamiche e delle regole che guidano la convivenza. Nelle sue diverse dimensioni: società, comunità; mercato, scambio; legge, etica.

Società e comunità

Gustavo Zagrebelsky, con i suoi libri e articoli su Repubblica, ci aiuta a distinguere tra le diverse dimensioni della convivenza, inducendo a riflettere sulla necessità di istituzioni forti che garantiscano che quella convivenza sia pacifica.

Qualunque semplificazione in materia è sempre difficile. E non mi ci voglio certo addentrare. Ma è chiaro che le regole sociali secondo le quali esistono contratti tra le persone, istituzioni cui rivolgersi, leggi accettate da tutti, sono un contesto nel quale molti aspetti potenzialmente violenti della convivenza si sciolgono in una microconflittualità non violenta. La legge non è uno strumento di collaborazione, ma eventualmente di consenso sui comportamenti che vanno bene a tutti. La collaborazione viene dalle logiche della comunità.

Se nella società tutto è regolato per contratto, per diritti e doveri, per carte e moduli, si collabora in base alla presunzione che non ci si può fidare dell’altro. La relazione competitiva è prevalente. Se nella comunità un accordo tra “gentiluomini” si firma con una stretta di mano, se l’onore e la fiducia sono gli strumenti principali in base ai quali ci si mette d’accordo, in questo contesto la relazione collaborativa è più probabile. Nelle dimensioni legalmente codificate valgono gli strumenti della relazione, mentre nelle relazioni di comunità vale il senso e lo scopo delle relazioni.

Un’ipertrofia della codificazione può finire col bloccare l’innovazione, nel senso che spinge a concentrare una quantità di sforzi sulla formalità e a diminuire l’attenzione intorno alla creazione di qualcosa di imprevisto.
Un’innovazione, spesso, viene da un pensiero sviluppato da una comunità
o da qualcuno che ha visto qualcosa che non era già stato
burocraticamente previsto. E poi è chiaro che tutto ciò che è dovere, diritto, modulo, codice, è pesante: mentre tutto ciò che è relazione, creazione, amicizia, fiducia, è leggero e interessante. Noi viviamo nella nostra comunità, non nel codice.

Ma attenzione: il codice serve invece per tutto ciò che deve garantire l’equilibrio tra innovazione e continuità, evitando la prepotenza, l’inganno, la violenza. Perché una comunità non è necessariamente un luogo della parità tra le persone. Anzi: spesso sono proprio le leggi che riequilibrano le relazioni di prepotenza o di ingiustizia.

Se le relazioni che una popolazione vive sono prevalentemente di comunità (occhio che tra queste vanno necessariamente comprese le relazioni feudali, mafiose, oligarchiche…) ma mancano le leggi che impediscano l’inganno, la prepotenza e la violenza, la comunità prevale ma non la collaborazione.

Insomma: un contesto giusto e umano è un contesto nel quale le relazioni di comunità e quelle codificate sono in equilibrio.

Internet ha dato forza alla comunità e alle relazioni umane. Ma in un contesto di leggi forti produce più risultati collaborativi che in un contesto di leggi deboli.

In realtà, l’innovazione nei codici è proprio il lavoro della politica. E la politica, in democrazia, è competitiva. Ma se la competizione si mangia tutto il dibattito, si perde molta ricchezza intellettuale ed esperienziale, si costruisce meno sul progetto e più sulla contrapposizione.

Quindi quello che serve è che l’innovazione nei codici venga attuata nel contesto di un codice più importante – tipicamente la Costituzione – che garantisca un processo per cui prima c’è una conversazione collaborativa che rispetti tutte le posizioni e le esperienze e poi si passi alla competizione.

Il rischio di parlare solo di conversazione, senza distinguere le dinamiche diverse della conversazione, può portare a qualche confusione: se ne parla in termini di democrazia plebiscitaria, democrazia padronale, democrazia familiare o democrazia populista. E la conversazione può essere utilizzata anche da queste dinamiche in assenza di un contesto costituzionale solido, chiaro e condiviso.

Credo che queste siano intuizioni sulle quali dovrò fare ancora molta riflessione. Spero possano indurre a qualche contributo, paziente e “collaborativo”.

20 Commenti

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  • “Internet ha dato forza alla comunità e alle relazioni umane. Ma in un contesto di leggi forti produce più risultati collaborativi che in un contesto di leggi deboli.”
    Ecco, però ci sono alcune eccezioni che andrebbero studiate (es.: http://www.bookcafe.net/blog/blog.cfm?id=1049 ). Forse ne sappiamo ancora troppo poco..

  • Luca, per ragioni che non avevano nulla a che fare poco dopo aver letto questo tuo interessante post sono finito sul sito d’informazioni dell’Unione delle Comunità ebraiche (http://moked.it/unione_informa/091016/091016.htm), che apre con un pensiero di un famoso commentatore biblico medievale offerto dal rabbino Roberto Colombo. Mi sembra adatto:
    Dio disse: “Faremo l’uomo” (Gen. 1,26). “Faremo” e non “Farò”. Pur potendo agire da solo Dio chiese la collaborazione degli angeli. Questo per insegnare a noi lettori la buona educazione, il garbo e la cortesia. Nessuno deve agire senza prima chiedere il consiglio e la collaborazione anche di coloro che si reputano meno capaci. (Rashì)
    La questione è, naturalmente, come “organizzare” e far funzionare “buona educazione, garbo, cortesia” perché generino “consiglio e collaborazione” nel contesto del quale parliamo. Non ho una risposta, ma sono convinto che non può essere affidata – come pure da qualche parte ancora si ritiene – a presunte qualità innate della comunicazione in rete.
    La non finitezza della rete rende urgente riconoscere che ci sono problemi che nascono proprio dalla caratteristica “di massa” dell’ambiente. Quand’anche non ci sia un unico “broadcaster”, resta la dimensione numerica che rende più complicato “conversare”.
    Altro elemento da valutare: la “conversazione” è un’immagine insufficiente per comprendere quello che si fa o si dovrebbe fare. Nel suo significato tradizionale la conversazione non è di solito “finalistica”, non si propone di per sé uno scopo — anche se spesso genera delle conseguenze. Esiste invece anche una comunicazione a più voci, una conversazione che definirei “deliberativa”, che si effettua cioè al fine di arrivare ad alcune conclusioni, per quanto provvisorie.
    Si tratta del tipico atto “politico”: discutere per decidere. Può applicarsi a materie ufficialmente ritenute politiche, a materie più vicine alla vita di tutti i giorni(es.: le terribili riunioni di condominio), ad altre più “culturali” (una relazione di un gruppo di studio, un progetto di corso di laurea, ecc.).
    E’ in particolare per questo tipo di conversazione, per le conversazioni “deliberative”, che nasce un diritto oggettivo che le regola sulla base di premesse di valore e di codici comportamentali condivisi.
    Da un paio di secoli a questa parte, nella società politica e civile dell’Occidente liberale, queste regole si sono costruite sulla base di un concetto fondamentale: il conflitto degli interessi, delle convinzioni, delle idealità deve essere riconosciuto come ineliminabile e le regole servono per “gestirlo” (manage) non per eliminarlo. Un concetto che non capiscono gli integralisti di ogni genere, compreso il nostro attuale presidente del Consiglio che semplicemente non sa darsi una ragione del perché non tutti lo “amino” come pensa di meritare.
    Dovremmo cominciare a discutere del conflitto nella società digitale e delle regole per gestirlo.

  • Bella la citazione del Genesi, e anche il commento. Il plurale c’è perchè il soggetto sono gli Elohim, ossia, “i Signori”. Quel versetto del Genesi è parte della cosiddetta tradizione “elohista”, che è affiancata ad un altro mito della creazione dell’uomo, che invece è della tradizione “yahvista” (quello dell’arglla, la costola etc.). Anche l’ebraismo alle origini era un politeismo…. viva il politeismo.

  • Piccola parentesi, per Antonio Roversi. Io lo incontrai a gennaio 2006, per rep, avrei voluto tornarci, ma, forse non lo sai Luca, purtroppo da due anni non è più su questa terra. Era una splendida persona.

  • A pelle, non mi piace la distinzione tra conversazione collaborativa e competitiva. La parte più qualificante della conversazione non è il dire, ma è l’ascolto attento, rispettoso ed empatico dell’interlocutore che hai davanti.
    Sulla base di questa definizione, ci sono le conversazioni, e poi ci sono (scusa il tecnicismo) gli stronzi. Il bello di internet non è che elimina gli stronzi, è che non ti obbliga a seguirli.

  • Credo che tutto debba passare per il rispetto e la fiducia del “codice più importante” da parte di tutti gli attori della conversazione, sia essa collaborativa o competitiva. Se è scontato per chi collabora che debba sviluppare rispetto e fiducia intorno a dei valori e per un progetto comune, non è affatto scontato per chi compete. Sono curioso di sapere come evolverà questa conversazione.

  • Luca, ci avevo ripensato pure io, da qui la triste scoperta, a Roversi (il cui blog è ancora on line: http://www2.scform.unibo.it/wordpress prendila come una notizia, ci scappasse una commemorazione) dopo L’odio in rete, per recensire il quale mi disse:
    Internet oggi «è un po’ ancora mitologia, e sempre più vita quotidiana, tanto che quello della rete non si può più considerare uno “spazio virtuale”. E neppure un “villaggio globale”, uno spazio democratico e cosmopolita: sembra piuttosto, anche se non solo, uno spazio in cui riprodurre e amplificare le differenze, dove far prevalere criteri identitari marcati e non negoziabili. In una parola, assistiamo a una “balcanizzazione” della rete».
    E questa va dedicata all’ottimo Gaspar 🙂

  • Io francamente questa volta non sono d’accordo con Gaspar.
    La conversazione è la modalità di interazione che prevede che ci si alterni nella attività del parlare e dell’ascoltare in modo non strutturato, è l’antitesi della conferenza.
    Collaborazione o competizione sono due possibili sfumature della conversazione, in realtà non esistono conversazioni completamente collaborative o completamente competitive, credo che in ogni conversazione ci sia una mix di questi due atteggiamenti.
    Il problema non sta nella competizione che non è di per sé un disvalore, ma nelle modalità usate per sostenere una propria tesi.
    In realtà la rete non è che uno strumento di comunicazione e le dinamiche della rete altro non sono che le dinamiche del mondo reale, qualche volta amplificate in modo negativo dalla immaterialità e dall’anonimato.
    Francamente rispetto a conversazioni molto competitive trovo che quello che uccide la conversazione è l’atteggiamento, molto comune tra le “blog star” che dopo la prima contestazione a una loro affermazione nemmeno rispondono e se chiedi come mai ti rispondono “se non siamo d’accordo a cosa serve rispondere?” trasformando la conversazione in una sterile serie di conferenze.
    bob
    PS quello che tende ad uccidere la conversazione a mio modo di vedere è il cross posting una volta giustamente considerato negativo, oggi largamente praticato.

  • Anche a me la visione della conversazione in rete in termini di dualismo collaborazione/competizione non convince molto. Anzi ritengo che il risultato migliore in termini di co-creazione e scambio di conoscenze si abbia spesso quando le persone coinvolte hanno punti di vista diversi sulla medesima tematica. Anche su questo blog credo che i thread più lunghi, più interessanti ed in grado di metter in circolo nuovi flussi di conoscenza (per chi vi partecipa o chi semplicemente li legge) siano quelli che nascono dal disaccordo rispetto alle opinioni di Luca, a quelle dei protagonisti dei suoi post o ancora a quelle espresse nei commenti. Citare in questo caso la metafora economica più concorrenza=maggiore bene pubblico credo sia pericoloso, però temo sia un errore altrettanto grave considerare la competizione in termini esclusivamente negativi.

  • ascolto con molta attenzione.. spero di fare presto un nuovo post in materia.. come sempre sono più interessanti i commenti dei post. ma vorrei precisare che il mio intervento mirava a distinguere diverse dimensioni della “conversazione”, che rischia di diventare una nozione troppo larga per poter essere pienamente significativa.. imho

  • Per fortuna la lingua italiana è già ricca di termini per indicare una interazione verbale tra due esseri umani. Ad esempio conversazione, discussione (quella di cui parlava Bob), disputa, litigio, alterco, gazzarra, etc.

  • Che la “asincronicità” propria del dialogo in rete e altri aspetti strutturali della comunicazione sociale in rete (non si può zittire come accade in un dibattito pubblico, il maiuscolo per alzare la voce è ben diverso da una sfuriata in una riunione), favoriscano la conversazione collaborativa rispetto a quella competititiva mi pare una eccellente sintesi di quanto già stiamo osservando da tempo.
    Anche la notazione di Gaspar sull’ascolto mi pare assolutamente azzeccata perchè non sta parlando dell’ascolto distratto che si ha nelle conversazioni sincrone o dell’ascolto mancato (mentre qualcuno parla io vengo distolto da un’altra conversazione a cui dedico la mia attenzione), posso sempre ricostruire un dialogo, come sto facendo io ora e mettermi “in ascolto” rileggendo i vari punti di vista e provare ad aggiungere la mia opinione in termini collaborativi e, perchè no anche competititivi se intendessi confutare il parere di qualcuno.
    Quello che vorrei aggiungere è che il cambiamento indotto dalla rete non riguarda solo le conversazioni, riguarda altri spazi della comunicazione che a me stanno particolarmente a cuore: la musica, la fotografia, la televisione.
    Tutti questi sistemi di comunicazione sono in profondo mutamento e contribuiscono alla creazione di strutture collaborative molto più forti di quelle competitive. Penso ai miliardi di immagini su Flickr che si riorganizzano nei gruppi tematici o per passioni, al fantastico esperimento di Tan Dun e la YouTube Orchestra o allo User Generated Content delle televisioni via web.
    Tanti anni fa quando mi spiegarono i principi del “workflow management” mi diedero un bel punto di vista che mi sembra tornato attuale: la differenza è tra “discussione” e “dialogo” (era in inglese ma viene perfetta l’origine greco/latina dei termini).
    Nelle discussioni, vogliamo dividere, spezzare l’argomento, alla ricerca della risposta ultimativa (lo diceva Weinberger a Venezia a proposito dei libri) e ci sarà un vincente e un perdente.
    Nel dialogo, siamo due intelligenze che si arricchiscono vicendevolmente e il “dia” è così intrinsecamente connesso al “logos” che senza entrambi gli elementi l’evento non si manifesta.
    La rete ci aiuta a sviluppare, per i motivi che Luca e altri hanno detto, il dialogo rispetto alla discussione, perchè c’è nel dialogo l’ascolto di cui parla Gaspar, c’è il rispetto di cui parlano Stefano e altri, c’è la ricaduta nella deliberazione del “faremo” di cui parla Mario.
    Il dia-logo non è solo nello scritto è nella musica, nell’arte, nell’immagine, in tutto ciò che la rete sta rendendo possibile dando al “dia” un valore ben superiore all’ipotetico “due” a cui inizialmente si riferisce per riportarlo a un due che è in realtà fatto da una moltitudine per nulla indifferenziata come si temeva con la visione negativa della globalizzazione.
    E’ il dialogo creativo delle proteine, in cui la vita si rigenera in una complessità che ci sfugge ma in cui i singoli elementi e la loro struttura unitaria sono inscindibili.

  • In effetti è molto difficile, a mio modo di vedere, capire quando e quanto una conversazione che avviene in rete sia manipolata alla fonte. Si dovrebbe improntare un discorso di responsabilità se non addirittura deontologico… In fondo però credo che la rete sia un arma a doppio taglio per i manipolatori delle conversazioni, prima o poi troveranno chi li “smaschera” e li farà ripiombare nell’anonimato. Chi è consapevole del potere delle conversazioni costruttive e ne fa una best practice, invece, cavalca l’onda a lungo. Gli altri cadono presto.
    Ciao

  • […] Vedi anche: La gabbia dorata dei social network esiste, dice uno studio. Ratti e Helbing hanno un’idea La scoperta della ruota complessa sorprende un mondo che affonda in modo lineare Movimento per l’ecologia dei media Dati, informazione, conoscenza. Discernimento. Saggezza La disinformazione è inquinamento Day4: disinformazione educativa Libri – FILTER BUBBLE – Eli Pariser Ecologia dell’attenzione Attenti al loop! (Un approfondimento sul concetto di conversazione) […]

  • […] Ci si è accorti piuttosto presto che anche nel contesto digitale, l’odio si prestava a essere anche uno strumento della manipolazione delle coscienze che serviva al potere. Nel 2006 se ne scriveva, su questo blog e altrove (Da Parigi: l’odio in rete). Il compianto Antonio Roversi faceva ricerca sui siti dell’odio molto prima che diventassero oggetto di gruppi di studio governativi (come quello appena annunciato del quale sono stato chiamato a far parte: Gruppo di lavoro sul fenomeno dell’odio online). E questo blog appunto ne dava conto. Le analisi di Roversi si riferivano ai siti di odio calcistico, di odio religioso, di odio razzista. La morfologia e le dinamiche si assomigliavano paurosamente. Già allora i contenuti davano il voltastomaco. E già allora si comprendeva chiaramente come l’unica via d’uscita fosse la cultura, la consapevolezza, la creazione di opportunità umane più grandi e più belle. (Vedi anche: Attenti al loop!).
 […]

  • […] It was soon realized that even in the digital context, hatred lent itself to being an instrument of the manipulation of consciences that served to power. In 2006 it was written about, on this blog and elsewhere (From Paris: Hatred on the Net). The late Antonio Roversi was researching hate sites long before they became the subject of government study groups (such as the one in which I have just been asked to partecipate: Working Group on the phenomenon of online hatred). And this blog reported about that. Roversi’s analysis referred to football hate sites, religious hate, racist hate. The morphology and dynamics were fearfully similar. Even then, the contents were already sickening. And even then it was clearly understood that the only way out was culture, awareness, the creation of greater and more beautiful human opportunities. (See also: Watch the loop!). […]

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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