Scrivere in questi giorni per Problemi dell’informazione è straordinario. Ogni giorno, ogni minuto, arrivano stimoli e suggerimenti. Il tema sembra sempre più urgente: come fare per sviluppare forme di giornalismo sostenibili economicamente. E arriva anche il pezzo di Mashable.
Bisogna fare ordine. In particolare bisogna individuare quali sono le responsabilità e le opportunità dei giornalisti. E quali sono le responsabilità e le opportunità degli editori. Forse arriveranno a convergenza. Forse no. Il pubblico, intanto, sviluppa le sue soluzioni. E non perde tempo.
Non ho accessso a “Problemi dell’informazione”, ma mi fido di lei. 🙂 Però io questo “pubblico” attivo e “problem-solver” non riesco a indentificarlo nell’accezione di questo post. Mi permetto solo di segnalare l’iniziativa (parallela?) della Federazione italiana editori giornali, che ha avviato un gruppo di lavoro che sta affrontando il tema della “valorizzazione dei contenuti editoriali in relazione alle nuove tecnologie informatiche e di comunicazione”, e cioè lo studio di come far pagare le news in rete, e il correlato problema della “tracciabilità” dei contenuti editoriali, di cui ha parlato Mantellini in “Tracciabilità vo cercando”. La FIEG ha dunque già scelto il “fee” vs. “free” – vista ora come vera e propria patologia del sistema – salvo rimettere i risultati dello studio in mano alla decisione di ogni singolo editore (cioè le modalità di pagamento). Ma i “parassiti” della FIEG (chi riproduce le notizie) non possono anche essere inquadrati nella “link economy”? (come dal punto 8 dell’articolo di Mashable: “Charging for quotes is not the answer”). Infine, per regolamentare la questione, la FIEG si appella apertamente alla “sensibilità del Parlamento e delle competenti autorità”. IMHO, il passaggio dal “free” vs. “fee” – se sposato da tutti i più letti quotidiani online – sarebbe una trasformazione radicale che, estremizzando, potrebbe accentuare un “divario culturale” rispetto a chi si nutre prevalentemente di informazioni online (o quantomeno portare a differenziare tra “information rich” e “information poor”).
Grazie dell’ospitalità, e auguri di buon lavoro. 🙂
Marco F.
Quelle che vengono annunciate come formule per superare la crisi dalla Fieg, almeno nelle dichiarazioni esplicite, sono solo manovre impercorribili il cui obiettivo è trasversale, riottenere il credito d’imposta sui costi della carta, riduzione dell’aliquota Iva, ammortizzatori sociali e defiscalizzazione su investimenti, non solo in tecnologia ma promozionali. Però si sceglie il tornante lungo per ovvi motivi di assalto alla diligenza generalizzato e non ultimo per una sorta di godimento che il governo potrebbe avere allo stillicidio della stampa. Sotto l’aspetto tecnico il concetto di “tracciabilità” oramai viene usato per ogni controversia, è una barzelletta se applicato on line. Primo perché è indifendibile sotto l’aspetto del danno arrecato, secondo perché se lo si volesse applicare arriverebbero le sorprese. Quali? Quell’ “incremento del 30% di navigazione a internet” che Malinconico sostiene esser dettato dall’editoria, ammesso e non concesso che sia vero (l’indicatore della navigazione è troppo generico, nessuno potrebbe sapere se arrivo per interessi miei ad un contenuto o perché un determinato giornale ha creato l’agenda), rimane che il versante in entrata, ovvero da internet all’editore è indirizzato per le stesse percentuali dai motori di ricerca. Certi editori ottengo più del 40% degli ingressi da Google. C’è subito un’obiezione dell’editore: il motore di ricerca indicizza i nostri contenuti per reindirizzare l’utente al legittimo proprietario. E’ vero, non a caso le affiliazioni o syndacation risolvono questa dinamica, più editori si aggregano sotto uno stesso ombrello e più i motori pescano in almeno uno dei contenuti degli editori associati, in aggiunta agli ulteriori vantaggi di ampliamento di target da offrire agli inserzionisti. Fin qui siamo nelle strategie del presente, già in atto.
Se invece spostiamo il discorso sulle opportunità del cliché tracciabilità, che tradotto in parole pertinenti è un content value management finalizzato a valorizzare la corporate reputation misurando l’impatto sui pubblici con vari indici, tutto è più coerente. Perché in fondo lo scopo dell’editore è negoziare (motivandoli) prezzi pubblicitari decuplicati rispetto ad altre forme (quella a performance fra tutte) in cui perde la partita a tavolino. Di tutto questo però non c’è alcuna strategia ma solo piccole tattiche difensive. La grande sfida è nei modelli di business, tutta da giocare ancora. Di certo andare in contrasto con i motori di ricerca e lanciare spauracchi per alzare il prezzo non funzionerà, al massimo farà guadagnare del tempo.
Un caso recente, il Carlino è stato l’unico ad alzare il prezzo (in sei mesi due aumenti di 100 cent, l’ultimo neanche un mese fa), il primo aumento non ha influito nei margini di contribuzione, il secondo è stato una tomba, ad occhi è croce vedendo le rese, ha perso più della metà dei lettori. L’aumento è stata solo un pretesto in realtà perché non si erano resi conto che la linea editoriale a chiaro schieramento a destra, stava facendo acqua da tutte le parti. Avevano perso la distanza necessaria per fare giornalismo.
refuso: aumento di 10 cent per due volte in sei mesi.