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Fact checking: lunga battaglia

Qualche tempo fa, al Festival del giornalismo di Perugia, un giornalista
del New Yorker raccontava che il suo responsabile del controllo dei
fatti non solo lo ha redarguito per aver sbagliato a trascrivere il nome
di uno scrittore che aveva vinto il Nobel per la letteratura, ma ha
anche corretto la stessa Fondazione Nobel sul cui sito il giornalista aveva
trovato quel nome.

La pratica del controllo dei fatti che vengono proposti dai giornali e dalle altre strutture che fanno informazione è un labirinto teorico ma una funzione essenziale. In alcuni casi è organizzata in modo molto analitico. In altri è affidata all’esperienza e alla buona volontà di chi scrive.

Il tema è sempre più importante. Attualmente, la comunicazione strumentale – politica, economica, intellettuale – si affida troppo spesso a operazioni che fondamentalmente consistono nell’affermare quello che si vuole senza alcun riscontro con la realtà o con la documentazione. Questo genere di operazioni si fonda sulla convinzione che la maggior parte dell’effetto si ottiene con un titolo o un tweet e che sono ben poche le persone che vanno davvero a controllare se quanto è stato detto è verificabile. I casi si moltiplicano in rete – persino uno come finisce per esserne vittima come tantissimi di noi – ma soprattutto si moltiplicano in televisione. Tanto per fare un esempio lontano, Michele Bachmann ha affermato: “After the debates that we had last week, PolitiFact came out and said that everything that I said was true”. PolitiFact, che si occupa proprio di verificare le affermazioni dei politici, ha segnalato che Bachmann ha un record negativo incredibile: “Her PolitiFact report card shows 59 percent of her statements rated have earned either a False or Pants on Fire. She has earned five Trues, three Mostly Trues, six Half Trues, seven Mostly Falses, 19 Falses and 11 Pants on Fires”. Ma Bachmann conta sul fatto che pochi vanno a verificare e tenta di collegare il suo nome a quello di una fonte attendibile come appunto PolitiFact. Inventarsi dei nemici che non lo sono, collegarsi a nomi popolari, negare l’evidenza, affermare risultati che non esistono è ormai prassi.

Occorre rendere più facile, molto più facile, verificare le affermazioni che si sentono negli organi di informazione. Occorre contrastare questa deriva per la quale chiunque voglia comunicare – dal punto di vista politico, economico o intellettuale – crede di dover “vendere” la sua idea come si fa nella pubblicità invece di tentare di “convincere” con fatti e dimostrazioni logiche, ripetendo il suo messaggio invece di qualificarlo. Contano sul fatto che la gente, come dice Daniel Kahneman, ragiona molto meno di quanto non decida in base all’intuizione… Come si può fare più fact checking, più facilmente, in modo più comodo da usare?

Il sapere in materia di fact checking è fortemente fondato sull’esperienza pratica e orientato alla funzionalità: si tratta di fare verifiche immediate, compatibili con il pochissimo tempo a disposizione di chi produce informazione. Ma con la rete le verifiche possono entrare in database e restare a lungo come criterio di valutazione: quello che fa PolitiFact in effetti è un vero e proprio punteggio relativo alla qualità fattuale delle affermazioni dei politici.

Le pratiche di crap detection sono state descritte in alcuni post precedenti: Rilevatore di stupidaggini, Affidabilità dell’informazione, Sensore di boiate.

In molti casi, ci si affida alla verifica su molte fonti indipendenti e al controllo dei documenti sui quali si basano le affermazioni. Una prima linea di azione è proprio questa: fare affermazioni “vere” è molto difficile, ma fare affermazioni “documentate” è possibile. Dunque la documentazione è anche il primo punto d’appoggio di chi faccia fact checking. Se un documento attesta un fatto e lo si cita almeno si dice da dove viene l’affermazione e si consente a chi la legge di andare a vedere il documento stesso per accertarsene. Ma non basta, purtroppo.

Non basta perché i documenti possono essere più o meno affidabili, i dati possono essere più o meno interpretabili, le variabili statistiche possono essere più o meno definite.

Avventurarsi nella critica delle fonti probabilmente non è già più fact checking per l’informazione ma vera e propria ricerca: si può fare ricorrendo a veri esperti di una materia che a loro volta abbiano la documentazione necessaria a sostenere la critica delle fonti; oppure si può fare tenendo traccia della credibilità acquisita nel tempo da una fonte; ci vuole tempo. Può darsi che si riesca a creare una pratica collaborativa in rete per il fact checking. Ma vediamo in proposito che cosa è successo nei giornali.

Graig Silverman racconta questa storia in un recente post su Poynter. All’inizio il fact checking era praticato da un gruppo di persone interne ai giornali che non si facevano vedere dal pubblico. Poi la funzione è diventata progressivamente pubblica e ha condotto alla generazione di veri e propri prodotti editoriali (ne parla nella sua tesi Lucas Graves riassunto magistralmente da Ethan Zuckerman). Attualmente si tratta di un metodo per valutare nel lungo termine la credibilità di persone e fonti. E può avere conseguenze, come dice Zucherman, se riesce a essere espresso in modo che costituisca una “punizione” per chi dice cose false o inaccurate. Questo percorso potrebbe essere fatto anche in rete.

Attenzione però: perché chi manipola i fatti sa probabilmente anche fare storytelling. Cioè creare emozione e coinvolgimento intorno al suo discorso in generale. Magari scivola sui fatti e li cita come elementi di un racconto più interessante che la gente è portata a credere in quanto bello, accattivante, demagogico, ecc ecc. In quei casi, il fact checking è più difficile perché magari i fatti non sono citati ma allusi nel quadro di una narrazione più ampia, e perché le sue conseguenze non sono tanto efficaci in quanto smontano un racconto che la gente vorrebbe fosse vero…

La forma più efficace di fact checking è dunque condizionata dalla frase da controllare: se si controlla chi cita un dato e se quel dato è contraddetto da un documento allora il fact checking è realizzabile; se quel dato è isolato e la persona che lo cita è una fonte che il pubblico ha voglia di veder controllata, il fact checking può avere efficacia perché genera una sanzione contro la credibilità di quella persona. Ma se la persona è popolare, un bravo demagogo per esempio, e se i fatti che cita sono giusto allusi ma non contengono una precisa circostanza da verificare, allora il fact checking è più difficile. La battaglia per la trasparenza dell’informazione e contro la manipolazione strumentale della realtà è molto molto lunga. Per ora richiede tanta pazienza e rischia di avere conseguenze solo sulla parte della popolazione più attenta a queste cose: potrebbe essere resa più facile dallo sviluppo di nuovi strumenti online che consentano di contare sulla partecipazione di molte persone esperte in rete?

Un sistema richiederebbe:
1. criterio di scelta delle frasi da verificare
2. criterio di verifica documentale
3. discussione critica delle fonti e dei dati
4. forte sistema di sanzioni sulla credibilità di chi fa affermazioni non documentate
5. decodifica dello storytelling
6. sostegno alla diffusione dell’attenzione al ragionamento controllato
7. grande impegno sull’alfabetizazione alle logiche dei manipolatori dei media
8. raccolta dei risultati dei fact check in database riutilizzabili
9. partecipazione di esperti e di cittadini volonterosi
10. forte sinergia con i giornali indipendenti che alla fine dovrebbero essere i primi fact checker per la popolazione (c
fr Brian Stelter su NYTimes)

Progetto ampio.

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  • Un altro accorgimento, molto utile quando si ha a che fare con i demagoghi da lei giustamente menzionati, è quello di ridurre ai minimi termini le frasi più accattivanti, ossia separare il “messaggio” dall’abbelimento retorico e stilistico (che è sempre uno spazio ri-disegnato dal linguaggio e nel linguaggio), mostrando il trucco del prestigiatore di turno.

  • Proprio lunga. Fermo restando che l’informazione di qualità deve essere gia verificata da chi la pubblica (anche tramite crowdsourcing, se occorre), sarebbe un ulteriore grande passo se anche i lettori avessero sempre la possibilità di verificare e approfondire di persona.
    Questo però significa contestualizzare gli articoli, inserire tutti i link utili e verificare che cliccando sugli stessi si apra la fonte, ma molte volte non è così.
    Giusto oggi ho scritto di un caso pubblicato su corriere.it che mi sembrava emblematico.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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