Se ti capita di poter contribuire al progetto di una scuola nuova, da dove cominci?
La domanda non è retorica. Chiedo ai gentili commentatori di questo blog di contribuire. Tra l’altro, i loro commenti, volendo, potrebbero andare anche nelle lettere al Sole 24 Ore del sabato, quelle dedicate all’innovazione.
Comunque, da dove si comincia per pensare una scuola nuova? Non è una circostanza che capita spesso. Ma in questo periodo storico può succedere con maggiori probabilità. Perché tutte le conseguenze del grande cambiamento socio-economico in atto sembrano convergere nell’idea che occorre un salto di qualità culturale. Le persone hanno bisogno di gestire meglio la grande quantità di informazione disponibile senza dipendere troppo dalle piattaforme che per ora la filtrano con algoritmi abbastanza banali. Le aziende hanno bisogno di persone che abbiano una preparazione piuttosto specialistica ma nello stesso tempo le persone hanno bisogno di entrare in azienda con una mentalità strategica, in modo da non dipendere troppo dalla veloce obsolescenza delle tecnologie e delle organizzazioni: soft e hard skills sono necessarie insieme, ma come si imparano? E poi i formatori hanno bisogno di formazione nuova se devono superare la limitatezza degli obiettivi specificatamente legati alla loro disciplina e ampliare il loro contributo a tematiche culturali più complesse. Infine, occorrono nuovi linguaggi e luoghi di incontro perché lo scambio non sia limitato a echo-chamber di pregiudizi tribali ma trovi il modo di conoscere ciò che è inaspettato: l’approccio di ricerca alla conoscenza è consustanziale con i valori originari della rete, come dice Stefano Moriggi, ma nella congiuntura attuale è vagamente subordinato a un approccio consumistico.
Ebbene, in questo contesto da dove si parte per fare una scuola nuova?
Seguiamo un ragionamento per trovare il punto di partenza. Sulla base di un assunto: il punto di partenza per progettare una nuova scuola dovrebbe essere il risultato principale che si vuole ottenere.
Verrebbe in mente che una scuola nuova insegna in modo nuovo. Certo, occorre insegnare qualcosa di nuovo e con un metodo nuovo. Viene in mente Start2impact tanto per fare un esempio. Ma è da lì che si parte? In realtà, l’insegnamento nuovo si progetta pensando l’apprendimento nuovo. È il risultato che conta. Ma come si apprende in modo nuovo? Tenendo conto del fatto che si deve apprendere la materia specialistica ma anche una mentalità adatta a fare gioco di squadra, a lavorare in autonomia, a sviluppare senso critico (le classiche soft skills delle quali tutti parlano): evidentemente non bastano i manuali e le spiegazioni frontali, occorrono esperienze. Alla prima riunione dell’Alleanza per il lavoro del futuro in EY si è parlato di questo in effetti. Perché l’apprendimento di soft e hard skills sembra necessario appunto al lavoro del futuro. Ma allora il punto di partenza per pensare una scuola nuova – cioè il risultato principale che si vuole ottenere con una scuola nuova – non è neppure l’apprendimento nuovo ma la preparazione al lavoro del futuro? Una scuola può essere un sistema per prepararsi al lavoro? Probabilmente no, perché il lavoro è una parte seppure importante della vita, la scuola prepara al lavoro ma anche alla vita civica, alla socializzazione più in generale, alla costruzione di una visione del mondo. Verrebbe da dire che forse l’obiettivo di una scuola nuova è favorire il processo che porta le persone a trovare il modo di esprimersi compiutamente nella società di oggi e di domani. Essere autori della loro vita. La scuola come sistema abilitante per lo sviluppo completo di ciascuno. Obiettivo impossibile, probabilmente, perché questo ha bisogno non tanto di apprendimento quanto di valori e pratiche diffusi in una comunità di pari che riconoscano il valore di ciascuno mentre i loro mentori e le loro guide spronano le persone a tirar fuori il meglio di sé. Ebbene, forse la scuola è il luogo nel quale quella comunità e quelle guide si possono creare e incontrare attraverso una serie di attività e di esperienze, condotte dentro e fuori la scuola, in un periodo libero e creativo della vita. Allora il risultato maggiore di una scuola, dunque il punto di partenza per pensare il progetto, è la comunità?
Spero di avere suggerimenti dai commentatori.
Per essere un’esperienza efficace ed educativa a largo spettro la scuola ha bisogno di contenere leve formative di varia natura ed in questo ritengo sia concentrata l’immensa difficoltà del fare scuola in modo ‘nuovo’. Siamo circondati da istituzioni scolastiche piene di intelligenza individuale che tuttavia spesso mostrano stupidità collettiva nei modi, nei programmi formativi ed inesorabilmente poi nei risultati. Io sogno una scuola che persegua ed alimenti l’intelligenza collettiva. Mi chiedo perché, se intervistiamo 100 ragazzi tra i 12 ed i 15 anni sul tema ‘scuola’, l’aggettivo più frequente nelle loro risposte probabilmente sarà “noiosa”. Ancora, perché appena assunti (quando la sorte gli sorride) i neo-laureati freschi di anni di studio devono a vario titolo ed in vari modi, seguire ancora un ulteriore periodo di formazione all’interno del mondo del lavoro che la scuola non gli ha fornito? Con le tecnologie a disposizione oggi, mi piace sognare una scuola in cui si studi come lavorare bene in futuro, come avere le giuste motivazioni, come capire quali saranno i veri obiettivi nella vita e come perseguirli con serietà ed abnegazione. Io sogno una scuola così.
Molto bello il tuo intervento, bravo.
Mi ha fatto pensare a Daniela Lucangeli quando ci parla di apprendimento e cita l’intelligere come apprendimento continuo, distingue l’apprendimento da dentro a fuori e da fuori a dentro, naturalmente fa riferimento all’apprendimento dal dentro al dentro. Ed è qui che si sofferma, facendoci capire che un sovraccarico di informazioni da fuori a dentro prevede un espulsione ed una ricerca di fuga. Cita dati di ricerche ministeriali e da li si può evincere molto dello stato dell’attuale scuola italiana.
Il tuo scritto mi fa pensare alle ultime metodologie pedagogiche come l’educazione esperienziale in ambienti urbani e in natura, all’outdoor education e alle scuole libertarie sparse sul territorio nazionale.
Si iniziano finalmente classi sperimentali con approcci montessoriani e di scuole nel bosco, vedi Ostia.
Penso ad uno degli ultimi libri di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli Città Educante, anche da questo si può partire per ripensare i concetti di comunità educante.
Partendo dalle architetture interne ed esterne degli edifici pubblici e privati destinati ad accogliere gli istituti scolastici.
Arrederei gli interni, coinvolgendo però la comunità educante, aprendomi al quartiere, dando slancio e sostegno alle realtà già nate della rete nazionale Scuole Aperte.
Darei vita a sperimentazioni urbane di città a misura di bambino, esistono diversi progetti su quest’ultimo tema di cui si è occupato anche il CNR.
Auspico progetti di scuole urbane itineranti, dove i bambini vivono la città e creano comunità, dando vita a progetti i cittadinanza attiva e gestione partecipata, coinvolgendo naturalmente la comunità educante composta, per esser chiari, da bambini, genitori, nonni, maestri o insegnanti e dirigenti scolastici.
Link utili per capirci meglio:
https://www.lacittadeibambini.org/progetto/
https://www.facebook.com/maria.debiase.73
https://www.youtube.com/watch?v=JaebZD6r5zs&t=4767s
https://teatrinoclandestinosud.wordpress.com/
Grazie ai laboratori di programmazione sono entrato in diverse scuole elementari della provincia di Como e ho potuto collaborare con maestre fantastiche e impegnatissime, entusiaste del proprio lavoro e amate dai bambini. Prendono lo stesso (basso) stipendio di quelle maestre che fanno il minimo sindacale.
Mi sono convinto che l’unico modo serio di fare una scuola nuova sia quello di pagare molto di più i docenti meritevoli e allontanare quelli inadatti. Qualsiasi soluzione che punti a migliorare strutture e strumenti è destinata a fallire se non cambia la gestione del personale.
L’ontogenesi della educazione deve ricapitolarne la filogenesi. Mi spiego. La nostra cultura è nata con lo studio della natura (pitture rupestri) quando eravamo cacciatori e raccoglitori, poi siamo passati ad astrazioni. Questa è la filogenesi della cultura. Tutti i bambini amano la natura. Wilson la chiama biofilia. L’ontogenesi della cultura avviene in ogni individuo e viene attuata dalla scuola. I bambini vogliono conoscere la natura. A scuola la natura non c’è. Non a caso stiamo distruggendo la natura. Perché non fa parte della nostra cultura. I bambini escono da scuola e non sanno i nomi degli alberi che incontrano tornando a casa. Se ti chiedo: bevi un litro d’acqua e fai la pipì: che strada ha fatto l’acqua? Non lo sai. Però impariamo poesie e teoremi. Giustissimo. Ma mancano le basi. Ora anche il Sole 24 ore e la Confindustria seguono Francesco e parlano di sostenibilità. Ma nella sua Enciclica Francesco spiega gli ecosistemi e si dimentica i batteri. Bisogna rimettere la natura nella cultura. E’ il problema numero uno. E invece si propone di risolverlo colonizzando altri pianeti!
Buonasera, vorrei partecipare alla discussione con l’incipit della relazione di progetto scritta per un concorso d’idee a Riccione. Il tema era una scuola dell’infanzia e lo spunto è stato immaginare ad un microcosmo nel quale crescere e sperimentare la vita futura da cittadino. Mi sembra che, in parte, possa rispondere anche ad alcuni commenti.
” … Ricreare un paesaggio urbano nel quale vivere l’esperienza della comunità. Immaginare una scuola come un piccolo villaggio nel quale imparare anche i valori della “civitas” intesa come cittadinanza, civiltà e condivisione.
Gli alunni, gli insegnanti, i genitori e la popolazione, diventano parte vitale di un insieme di architetture, dove la forma, il colore, i materiali, i dettagli, la relazione con lo spazio urbano e con il verde giocano a diventare esperienza.
La gestione delle risorse, l’educazione al rispetto dei luoghi in cui si abita e il dialogo con la natura vengono considerati motivo di esperienza che il bambino porterà con sé nella vita, nell’auspicio che ciò possa aiutarlo ad essere più aperto, sereno e curioso. Il cantiere stesso sarà parte della didattica sperimentale della scuola, i bambini potranno essere parte del processo costruttivo e comprendere come saranno realizzati gli ambienti in cui vivranno e cresceranno.”
La domanda che poni all’inizio di questo articolo ce la siamo posta anche io e Siresia Bagnoli, entrambi designers, quando abbiamo iniziato a progettare la nostra tesi di biennio all’ISIA di Firenze.
L’ambito educativo sta attraversando un momento di ridefinizione non solo negli spazi, ma anche nei contenuti e nei ruoli studente-insegnante.
A livello istituzionale, come riflesso al cambiamento tecnologico in corso, vengono proposte alla scuola delle linee guida da seguire per riformularsi in linea con ciò che sta accadendo nel mondo lavorativo. Tra i vari aspetti da curare, l’elemento più volte ribadito dalle linee guida è la riformulazione delle competenze degli studenti in base alle trasformazioni del mercato del lavoro.
Da questa riformulazione scaturiscono una serie di sperimentazioni educative, tra cui i laboratori di robotica educativa o l’ora del coding.
Queste tendenze, che dimostrano un attenzione nei confronti di un cambiamento dirompente, parallelamente rischiano di concentrare la formazione solo sull’insegnamento ad utilizzare strumenti, tecnologie e software, trasformando così il fine del processo formativo nella creazione di un “curriculum”. Oggi per esempio il codice, viene insegnato agli studenti come elemento tecnico e non come traduttore per comprendere la società.
Siamo nello stesso tempo immersi in una società ipertecnologica a sviluppo esponenziale in cui la tecnologia incide ormai su quasi ogni aspetto della nostra vita: il modo in cui ci relazioniamo con gli altri, le nostre aspettative, i nostri lavori, il modo in cui impariamo qualcosa, come condividiamo informazioni, ecc.
Le informazioni virtuali escono dalle “macchine” per animarsi negli oggetti che utilizziamo ogni giorno, tendendo sempre più ad ibridarsi con il reale attraverso interfacce naturali.
In questo processo di spostamento del virtuale nel reale e di smaterializzazione tecnologica, abbiamo iniziato, in modo spontaneo, a delegare alle macchine parte delle nostre competenze. Questo rapporto di fiducia, ci ha portato ad una sorta di alleggerimento, facilitandoci molte azioni, ma contemporaneamente, ha fatto sorgere numerose questioni etiche.
Pensiamo ad esempio alla nostra attività in rete, in cui i dati e le informazioni che generiamo, vengono continuamente raccolte e analizzate da grandi aziende, governi e agenzie.
Tutto questo accade senza che ce ne rendiamo conto, poiché il processo è invisibile.
Non è una novità che l’evoluzione tecnologica, nel corso della storia, sollevi nuove questioni anche di carattere etico. Ma questa volta, differentemente dal passato, è necessario che queste problematiche vengono dibattute, condivise e diffuse il più possibile a livello sociale.
La condivisione e il dibattito a livello collettivo, permetterebbero ad una società di gestire il cambiamento e non di subirlo.
Come possiamo arrivare ad attivare una presa di coscienza generale di questo cambiamento?
Il mezzo, che rilascia a un individuo gli strumenti per comprendere il mondo esterno, permettendogli di formare la propria capacità critica è l’istruzione.
E’ qui che un individuo, ma anche tutta la collettività, si gioca il futuro.
La scuola non è solamente il contesto che permette nel suo sviluppo la maturazione di competenze, ma è anche il luogo e il momento che rilascia ad un individuo gli strumenti di conoscenza, quegli strumenti che gli permetteranno di poter comprendere e valutare il contesto in cui vive e in cui vivrà, per poter diventare un autore stesso del cambiamento.
Alla domanda “Se ti capita di poter contribuire al progetto di una scuola nuova, da dove cominci?” Noi pensiamo di incominciare con l’introduzione nel sistema formativo, di una serie di tematiche e attività che hanno lo scopo di far comprendere agli studenti i cambiamenti sociali e tecnologici che stiamo vivendo, come per esempio il rapporto uomo-macchina.
Come designer, abbiamo pensato di progettare una serie di esperienze educative per poter affrontare questa tematica. Ogni esperienza ha come protagonista uno strumento robotizzato che non ha lo scopo di sperimentare la costruzione di un robot o la sua programmazione, ma di rendere tangibile il comportamento di svariate tecnologie che spesso rimangono nascoste. L’obiettivo è far conoscere, sperimentare e riflettere i bambini sulle capacità delle “macchine” stesse, portandoli ad acquisire quegli strumenti cognitivi utili a comprendere la tecnologia.
Marco Zemolin
Siresia Bagnoli
Per approfondimenti allego il link ISUU della tesi:
https://issuu.com/siresiabagnoli-marcozemolin/docs/istrumenta-master_thesis_metadati
Sono stato un pessimo studente e a scuola mi annoiavo spesso. Per fortuna la vita mi ha permesso attraverso un percorso alternativo, e una serie di fortunose coincidenze, d’ imparare la via dell’ auto formazione coltivando la curiosità e lo stupore dell’ignoto. Sono stato salvato, in questo da un’ insegnante di Matematica. Il quale invece di partire con la solita lezione “numerica” nelle prime due ore in cui lo conoscemmo, ci parlò di Arabi, di Greci e di Pitagora e la sua setta.
Da quella volta tutto il mio atteggiamento verso la scuola e lo studio inizio a cambiare.
Direi che tre punti ritengo fondamentali.
Per come la vedo io la scuola dovrebbe oggi creare dei cittadini liberi da gabbie mentali capaci di esprimere un libero arbitrio non convenzionale e personale, dotati di una buona capacità critica.
Importantissimo che la scuola fornisca gli elementi di base per imparare in modo autonomo, riuscendo a coltivare curiosità e contemporaneamente la metodologia per soddisfarle.
Gli strumenti didattici dovrebbe quanto meno non essere anacronistici conformandosi alla trasformazione digitale che avanza sempre più veloce. Cosi le conoscenze degli insegnanti rispetto all’uso didattico della tecnologia.
Questa di seguito è la mia visione personale della nuova scuola.
Si deve sostituire la centralità dell’insegnate a quella del discente, permettendo all’insegnante d’intraprendere un ruolo di supporto alle autonome scelte di chi in prima persona concorrerà alla sua auto formazione. L’insegnate potrà guidare lo sviluppo personale, correggere, suggerire, ma il vero motore sarà il nuovo discente. Colui che dal centro di comando della sua personale infrastruttura, porterà la sua mente oltre il limite del conosciuto.
Un Scuola nuova è una scuola che da ai giovani la possibilità di pensare con le mani perché, come ha bene detto Bill Drayton sul NYT di quale giorno fa «i lavori basati su ruoli predefiniti come il giudice, l’avvocato o l’autista in un paio di decenni non esisteranno più». Per «riformare il sistema formativo» in questa direzione occorre rafforzare quei percorsi che, come l’alternanza scuola lavoro, sono «capaci di trasformare il modo tradizionale di fare scuola» integrando in compiti di realtà sapere e fare. In Veneto abbiamo cercato di contribuire a questa causa con un Accordo Interconfederale regionale che abbiamo dedicato «alla promozione dell’alternanza scuola lavoro nelle imprese artigiane e nelle pmi». Un Accordo, certo non rivoluzionario, ma che riflette su «contesto» , mettendo l’accento sulle condizioni necessarie per costruire di un futuro di crescita e di sviluppo basato sull’investimento nelle competenze di chi lo abiterà negli anni a venire. Perchè c’è una lezione che dovremmo imparare dalla comparazione del nostro sistema con gli altri sistemi europei è quella per cui, se da una parte l’emulazione cieca di un modello astratta dal contesto in cui è nato non porta molto lontano, dall’altra ci sono alcuni indici che, se letti insieme, possono spiegare la competitività di un paese: tra questi spiccano l’elevata qualità di un sistema di istruzione e formazione professionale e la presenza di un sistema di relazioni industriali forte e cooperativo. Come a dire insomma che senza «contesto», e quindi senza integrare le diverse forse che lo costituiscono in un disegno comune, anche i migliori strumenti non possono che essere destinati a fallire.
Scusate ma ho dimenticato il pezzo conclusivo, aggiungo qui per la componente “Unconventional Learnig” un esempio direttamente derivato della mia nuova idea d’arte #immateriale. L’esempio apre uno scenario concreto di nuove possibilità d’insegnamento attraverso la multimedialità. Una sorta di arte ponte, costruita attraverso una nuova prospettiva pittorica rispetto tre differenti soggetti. Un percorso di analisi della pittura e del pensiero analitico rispetto alla storia e al comportamento dei Papi nel confronto del Trono di Pietro.
http://flafaxtri.blogspot.it/2015/06/un-omaggio-papa-franceso-che-oggi-e.html
Sono un’insegnante .
Studentessa motivata e studiosa , ho restituito alla Scuola tutto ciò che la Scuola per anni , gratuitamente, mi ha dato : istruzione “classica “, intendendo per classica saperi fissati e solidi che ancora oggi , dopo venticinque anni ,trasmetto ai miei alunni ; opportunità , cioè possibilità di conoscere il mondo dell’arte, dello sport, della disabilita…trasformandole in passioni personali, in cui coinvolgo ,con iniziative varie ,le classi in cui mi sono trovata ad insegnare ; luogo di accoglienza, maturazione , crescita ed è ciò che continuo ad offrire , insieme a validi e preparati colleghi, a generazioni di bambini che “passano ” dalle nostre mani .
Come dovrebbe essere la Scuola nuova ?
Sicuramente una Scuola ridisegnata da esperti del settore , da insegnanti,
e non da tecnici ;
una Scuola che fornisca Saperi Essenziali, non una miriade di Saperi “epidermici “;
una Scuola che favorisca per prima cosa, la crescita della persona, perché solo una personalità ben strutturata saprà affrontare le sfide che il futuro continuamente porrà .
Una Scuola nuova non si fa con Riforme a costo zero !!!
Per avere Nuovi docenti , bisogna retribuirli adeguatamente , finanziare adeguatamente progetti che arricchiscano effettivamente l’Offerta Formativa di ogni scuola , da Nord a Sud.
Per avere una Scuola nuova servono semplicità ,entusiasmo e passione e molti , molti fatti al posto di tante , tante parole.
Buon sabato .
Da dove si parte per fare una scuola nuova?
di Stefano Zuliani
Dopo diversi anni nel mondo del lavoro, qualche esperienza di didattica, e avendo sott’occhio il vissuto dei mei figli, credo un buon punto di ripartenza per una “scuola nuova” sia l’interdisciplinarità.
Non si tratta certo di una novità per la nostra cultura occidentale di matrice classica. I migliori intellettuali ed artisti, da Socrate a Leonardo da Vinci, l’hanno infatti largamente e magnificamente praticata.
Da molto tempo però la corsa delle tecnologie e della globalizzazione sta invece spingendo verso sistemi di formazione sempre più verticali. Infatti, essendosi il campo delle conoscenze ampliato a ritmi senza uguali nel passato e parallelamente vivendo tutti un mondo crescentemente competitivo, la specializzazione è unanimemente ritenuta inevitabile. Va detto come tale visione sia stata anche ampiamente cavalcata per alimentare linguaggi specifici, talvolta addirittura ridicoli, volti principalmente ad alzare barriere all’entrata da parte di alcune categorie per mantenere i propri privilegi.
Il sistema formativo del nostro paese ha accompagnato tali dinamiche mettendo in secondo piano i valori dell’interdisciplinarità e del dialogo e confronto fra mondi anche molto distanti.
A livello di scuola secondaria, nel nostro Paese, gli studenti affrontano contemporaneamente circa dieci materie d’insegnamento, ciascuna con libri di testo viepiù ampi e numerosi, con molti compiti in classe ed interrogazioni, secondo un calendario piuttosto impegnativo. Purtroppo molti ragazzi abdicano ben presto, e solo pochissimi talentuosi e volenterosi riescono ad andare oltre la mera acquisizione di conoscenza lavorando anche su personali percorsi, riflessioni e collegamenti. All’opposto, nei paesi anglosassoni – che comunque per molti aspetti hanno sistemi scolastici decisamente inferiori al nostro – nel corso di ogni quadrimestre lo studente può concentrare l’impegno su sole quattro o cinque materie alla volta (alcune delle quali a sua scelta), consentendogli così di “godersi” maggiormente gli argomenti, di metterli in relazione l’uno con l’altro, e di cominciare a testare le proprie migliori inclinazioni.
Anche a livello di università la situazione appare in parte compromessa. La fame di cattedre universitarie da parte di un crescente numero di aspiranti docenti ha generato, negli anni, insegnamenti sempre più “di nicchia” che in molti casi non lasciano particolare traccia negli studenti. D’altra parte, il crescente legame dei professori con il mondo delle imprese e delle consulenze ben retribuite ha anch’esso dato spinta ad un’accentuata specificazione operativa del sapere e della formazione ormai veramente troppo distante dall’ampiezza di sguardo tipica della nostra migliore tradizione.
Infine, i dipartimenti nelle varie facoltà sono stati costituiti, spesso, secondo logiche difensive, arroccate e non aperte alle contaminazioni, nonostante la frontiera della ricerca sia oggi molto più attenta alla interdisciplinarità.
Alcuni nuovi strumenti possono invece ancora giocare a favore. Fra gli altri, per la sua grammatica, la varietà dei temi trattati, l’impatto emozionale ed il largo bacino di utenza potenziale, il cinema rappresenta senz’altro un mezzo molto potente.
Il recente documentario Il senso della bellezza, prodotto dalla Rai, è una valida rappresentazione di come scienziati ed artisti possano trovare terreni comuni di approfondimento estremamente interessanti. Non a caso, un’associazione finanziata con risorse pubbliche sta in questi giorni invitando le scuole a portare gli studenti a vedere quel film (e altri di qualche valenza educativa).
Una legge da poco emanata, riconoscendo il “ruolo strategico dell’industria cinematografica come veicolo formidabile di sviluppo culturale”, ha assegnato ad alla formazione sul cinema, ed attraverso il cinema, un minimo di 12 milioni di euro all’anno (il 3% del Fondo per l’audiovisivo); è un’occasione da non mancare.
Da dove si parte per fare una scuola nuova?
di Stefano Zuliani
Dopo diversi anni nel mondo del lavoro, qualche esperienza di didattica, e avendo sott’occhio il vissuto dei mei figli, credo un buon punto di ripartenza per una “scuola nuova” sia l’interdisciplinarità.
Non si tratta certo di una novità per la nostra cultura occidentale di matrice classica. I migliori intellettuali ed artisti, da Socrate a Leonardo da Vinci, l’hanno infatti largamente e magnificamente praticata.
Da molto tempo però la corsa delle tecnologie e della globalizzazione sta invece spingendo verso sistemi di formazione sempre più verticali. Infatti, essendosi il campo delle conoscenze ampliato a ritmi senza uguali nel passato e parallelamente vivendo tutti un mondo crescentemente competitivo, la specializzazione è unanimemente ritenuta inevitabile. Va detto come tale visione sia stata anche ampiamente cavalcata per alimentare linguaggi specifici, talvolta addirittura ridicoli, volti principalmente ad alzare barriere all’entrata da parte di alcune categorie per mantenere i propri privilegi.
Il sistema formativo del nostro paese ha accompagnato tali dinamiche mettendo in secondo piano i valori dell’interdisciplinarità e del dialogo e confronto fra mondi anche molto distanti.
A livello di scuola secondaria, nel nostro Paese, gli studenti affrontano contemporaneamente circa dieci materie d’insegnamento, ciascuna con libri di testo viepiù ampi e numerosi, con molti compiti in classe ed interrogazioni, secondo un calendario piuttosto impegnativo. Purtroppo molti ragazzi abdicano ben presto, e solo pochissimi talentuosi e volenterosi riescono ad andare oltre la mera acquisizione di conoscenza lavorando anche su personali percorsi, riflessioni e collegamenti. All’opposto, nei paesi anglosassoni – che comunque per molti aspetti hanno sistemi scolastici decisamente inferiori al nostro – nel corso di ogni quadrimestre lo studente può concentrare l’impegno su sole quattro o cinque materie alla volta (alcune delle quali a sua scelta), consentendogli così di “godersi” maggiormente gli argomenti, di metterli in relazione l’uno con l’altro, e di cominciare a testare le proprie migliori inclinazioni.
Anche a livello di università la situazione appare in parte compromessa. La fame di cattedre universitarie da parte di un crescente numero di aspiranti docenti ha generato, negli anni, insegnamenti sempre più “di nicchia” che in molti casi non lasciano particolare traccia negli studenti. D’altra parte, il crescente legame dei professori con il mondo delle imprese e delle consulenze ben retribuite ha anch’esso dato spinta ad un’accentuata specificazione operativa del sapere e della formazione ormai veramente troppo distante dall’ampiezza di sguardo tipica della nostra migliore tradizione.
Infine, i dipartimenti nelle varie facoltà sono stati costituiti, spesso, secondo logiche difensive, arroccate e non aperte alle contaminazioni, nonostante la frontiera della ricerca sia oggi molto più attenta alla interdisciplinarità.
Alcuni nuovi strumenti possono invece ancora giocare a favore. Fra gli altri, per la sua grammatica, la varietà dei temi trattati, l’impatto emozionale ed il largo bacino di utenza potenziale, il cinema rappresenta senz’altro un mezzo molto potente.
Il recente documentario Il senso della bellezza, prodotto dalla Rai, è una valida rappresentazione di come scienziati ed artisti possano trovare terreni comuni di approfondimento estremamente interessanti. Non a caso, un’associazione finanziata con risorse pubbliche sta in questi giorni invitando le scuole a portare gli studenti a vedere quel film (e altri di qualche valenza educativa).
Una legge da poco emanata, riconoscendo il “ruolo strategico dell’industria cinematografica come veicolo formidabile di sviluppo culturale”, ha assegnato ad alla formazione sul cinema, ed attraverso il cinema, un minimo di 12 milioni di euro all’anno (il 3% del Fondo per l’audiovisivo); è un’occasione da non mancare.
Un’economia forte può essere solo quella che incoraggia il talento e l’ingegno di tutte le sue risorse.
Il mercato del lavoro è in continua evoluzione: l’idea chiave da qualche anno è quella di coniugare l’esigenza di flessibilità imposta dal mercato, con le garanzie di sicurezza dell’occupazione di ogni lavoratore. Una “flessibilità sicura” (ossimoro concettuale), capace di garantire competitività alle imprese e allo stesso tempo, di fornire ai lavoratori, sostegni attivi e passivi.
Accanto a questo stiamo assistendo anche ad un veloce turnover di competenze. Si stanno modificando modelli e dinamiche di business e anche se il capitale umano continua ad assumere un ruolo centrale, stanno diventando obsolete competenze fino a ieri considerate necessarie.
In molti casi i lavoratori nel prossimo futuro, non svolgeranno più azioni semplici e ripetitive ma useranno “tecnologia” e gestiranno “big data” e la scuola avrà un ruolo importante per costruire le competenze che mancano e più alto sarà il livello di istruzione e di specializzazione, maggiori saranno le possibilità di avere un lavoro. Diventa così strategico favorire un dialogo costante tra scuola e aziende ex ante. Bisogna partire dalla domanda delle aziende e da lì la scuola, a tutti i livelli, deve costruire le risposte co-progettando percorsi formativi ad hoc.
Oltre il ruolo strategico della scuola serviranno maggiori investimenti in ricerca e sviluppo (oggi siamo l’1,3% del Pil, rispetto alla media europea che è del 2%). L’innovazione sarà fondamentale. Ma l’innovazione richiede ricerca di base. Non scordiamoci che le scoperte in corso nei laboratori e nelle università oggi potrebbero portare alle cure e alle tecnologie fondamentali di domani. Per avere un futuro nel lavoro servirà anche alimentare i finanziamenti a queste strutture.
La politica non si scordi che la forza dell’Italia risiede nella sua economia “reale”, nel suo sistema socioeconomico dinamico, che coniuga tradizione ed innovazione, varietà e qualità nell’offerta di prodotti e servizi apprezzati e richiesti in tutto il mondo. Chi dovrà governare pensi anche a questo
Gentilissimo Luca De Biase,
a questo link il mio contributo al suo invito, per un dialogo aperto: “Programmi, materie, compresenze, dirigente: 4 idee per cambiare” (da ilsussidiario.net):
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2018/4/7/SCUOLA-Riformare-i-cicli-va-bene-ma-prima-viene-l-autonomia/815226/
[…] Ma al di là delle letture occorre una progettazione profonda del sistema con il quale si fa educazione. Il design è la disciplina pratica che più esplicitamente si struttura per tener conto della complessità. Il design dell’educazione sta diventando una disciplina strategica (Scuola della comunità). […]