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Internet dopo l’epoca delle privatizzazioni

Internet è nata pubblica. È stata privatizzata con un processo terminato nell’aprile del 1995. I risultati sono meno che perfetti. È tempo di riportarla nella sfera pubblica, secondo Ben Tarnoff, autore di “Internet for the people” (Verso 2022). Ma come si può porre questo argomento? In questo post tentiamo di formulare qualche ipotesi.


Dopo l’acritica fiducia nelle conseguenze rivoluzionarie e salvifiche della digitalizzazione e dopo la disperata denuncia delle conseguenze controrivoluzionarie e manipolatorie della digitalizzazione, siamo al punto di cercare di capire in che modo internet stia contribuendo all’evoluzione della vita umana sulla Terra. Non si tratta più né di denunciare internet né di salvare internet. Ma di comprendere questa fase storica. E immergere l’analisi della tecnologia in una più larga e profonda indagine sulle strutture sociali che guidano gli sviluppi della convivenza degli umani nel pianeta. 

Ieri, alla Normale di Pisa, ho partecipato alla discussione intorno al lancio di “Alla Enne”, un portale di lezioni e dibattiti dei grandi intellettuali che sono passati dalla grande scuola pisana. L’argomento era relativo alle dinamiche che potrebbero portare l’internet a contribuire a un’evoluzione degli umani più attenta alla qualità della conoscenza.

In pratica, dopo il periodo pionieristico dell’internet che si è sviluppato intorno alle idee dei visionari che hanno adottato precocemente la rete ma in assenza di un pubblico numeroso di utenti della rete, la prima fase di reale digitalizzazione del dibattito pubblico è stata svolta in un contesto mediatico che si è progressivamente concentrato su mezzi di comunicazione organizzati da modelli di business, sistemi incentivanti, interfacce e algoritmi, orientati a raccogliere l’attenzione delle persone per rivenderle sul mercato pubblicitario. Qualunque attenzione andava bene, in quel contesto, anche quella che si dedica alla comunicazione di conoscenze totalmente prive di qualsiasi capacità di contribuire alla qualità della convivenza tra gli umani.

Si pone un’analogia tra l’ecologia della prima industrializzazione, nella quale i sistemi produttivi generavano esternalità negative come l’inquinamento, e l’ecologia dei media della prima digitalizzazione, nella quale i sistemi di comunicazione generavano esternalità negative come la moltiplicazione di fake news, odio online, banalità, dipendenze, depressioni e così via.

Un’altro paragone si può porre: la prima digitalizzazione assimiglia a una forma di ipertrofia del fast food nella quale tutti mangiano tanto, con gusto e a basso costo, ma con conseguenze pessime sulla salute, a partire dall’obesità e le sue controindicazioni. Una dieta mediatica paragonabile si vede su piattaforme nelle quali ci si può abbuffare di forme di comunicazione senza qualità, appaganti, distraenti, potenzialmente negative per la salute mentale.

Una vita in rete più matura si può immaginare. E probabilmente si verificherà, man mano che la società prenderà coscienza delle dinamiche dell’ecologia dei media e reagirà. Ma quali saranno i passaggi storicamente credibili che potranno portare in questa direzione? Disastri ambientali, come la Brexit, si sono già verificati. E nuovi problemi anche più importanti sono sotto gli occhi di tutti. Ma non è mai soltanto il timore del disastro a far fare un salto di consapevolezza alla società. Ci vuole anche un cambiamento di contesto che alimenti la ricerca di possibilità nuove nella dinamica del sistema. Molti pensano che questo cambiamento sia connesso alla policy.

Si può sviluppare in una mediasfera nella quale si moltiplicano le alternative alle piattaforme “inquinanti”? Quai sono le mosse di policy che possono andare in questa direzione? Ecco alcune ipotesi:

  • Riportare internet sotto il controllo pubblico: si può fare come statalizzazione, ma anche attraverso lo spezzatino delle piattaforme, oppure con la coregolamentazione
  • Favorire per via normativa una quantità di alternative alle piattaforme attuali che siano fondate sulle comunità
  • Investire risorse pubbliche per far nascere una quantità di piattaforme orientate in una direzione ecologica, multilinguistica, costituzionalista, socialmente inclusiva

La policy potrebbe certamente rendere l’ambiente più favorevole a iniziative alternative ai grandi poteri digitali attuali. Ma qualcuno dovrebbe cogliere l’opportunità. Chi si potrebbe mettere alla testa di queste dinamiche?

Occorrono aziende, associazioni e istituzioni che abbiano identitariamente bisogno di esprimere una comunicazione di conoscenze di qualità, come le università per esempio. Occorrono sistemi incentivanti che vadano nella direzione di favorire un contesto mediatico nel quale la diversità non è divisione. Occorrono sistemi fiscali che orientino lo sviluppo economico in una direzione che non tende semplicemente a concentrare il vantaggio finanziario nelle mani di pochissimi ricchissimi ma distribuisce il valore tra molti.

Si può essere fiduciosi o scettici di fronte a queste ipotesi? Quale sarà la reazione delle società libere alle tendenze che si sono sviluppate con la prima digitalizzazione del dibattito pubblico?

Internet privata ha reso più poveri molti operatori di attività economiche divenute obsolete, mentre ha reso ricchissimi pochi proprietari di grandi piattaforme oligopolistiche. Nello stesso tempo ha dato forti soddisfazioni a tre o quattro miliardi di persone, che a loro volta hanno lavorato per arricchire le suddette piattaforme oligopolistiche, in parte in modo consapevole, in parte in modo inconsapevole. La manipolazione dei comportamenti delle persone nel quadro sociale che si è sviluppato con le grandi piattaforme oligopositiche è in effetti una delle grandi ipotesi interpretative del gigantesco fenomeno che si è verificato dopo la privatizzazione di internet. Di certo, la manipolazione non può essere l’unica spiegazione. Gli umani non sono perfettamente razionali, ma neppure del tutto irrazionali. Quindi non si può dire che tutto sia avvenuto a causa di un’ingannevole percezione di ciò che si faceva online. L’unica cosa certa è l’osservazione basilare: pochi arricchiti e molte più persone impoverite.

Una reazione potrebbe essere direttamente questa: sequestrare le ricchezze che i grandi oligopolisti hanno accumulato, statalizzare le loro piattaforme, ripartire da logiche politiche. Questo richiederebbe una forte fiducia nei sistemi politici. Il che non è sempre facilmente dimostrabile. Forse più che un ritorno della proprietà pubblica, si potrebbe immaginare un sistema di incentivi per una proprietà “comune” come di fatto è già il protocollo internet e il web. Le dimensioni della rete che siano effettivamente gestite da comunità multistakeholder con principi trasparenti, tecnologie comprensibili, interfacce orientate alla qualità, interoperabilità garantita e sistemi di raccolta di dati personali che li lascino nel pieno controllo dei cittadini, dovrebbero però essere fortemente sostenute dalle autorità politiche che abbiano a cuore un’organizzazione della società meno polarizzante. 

Non sarà facile. Ma una parte della strategia della Commissione europea sembra poter andare in questa direzione. Per adesso.

La strategia della Commissione sarà tanto più importante quanto più avrà conseguenze anche al di fuori dei confini dell’Unione europea. In passato questo è avvenuto, un po’, per esempio sulle norme relative al contenimento dell’inquinamento dei siti produttivi. Oppure alla diffusione anche in altri paesi – come la California – di regole che garantiscano diritti umani come la privacy in rete.

La de-globalizzazione di internet è uno scontro di tecnologie e di civiltà (difesa e softpower). La Dichiarazione sul futuro di internet voluta dagli Stati Uniti per rispondere alla Dichiarazione sui diritti e i principi digitali proposta dalla Commissione europea ha raccolto una sessantina di adesioni. Una quota minima degli stati e della popolazione del mondo. La rete aperta e neutrale è una tecnologia di minoranza, purtroppo. Ma questo corrisponde oggi più a una reazione nei confronti del potere americano piuttosto che a una reazione nei confronti delle idee europee (ovviamente è una semplificazione). Le idee europee potrebbero svilupparsi oltre i confini dell’Unione se si smarcheranno dal pregiudizio che in fondo servano a perpetuare il potere occidentale sul mondo.

Di certo, molto dipende da un salto di qualità culturale nel mondo che si definisce democratico. Per quanto riguarda il mondo internettiano che resta nelle democrazie si deve riuscire a ottenere un miglioramento della qualità del risultato di conoscenza generato dalle persone che usano la rete. Superando l’idea dei media come terreno di speculazione finanziaria, di raccolta di attenzione da rivendere agli inserzionisti pubblicitari, di sistema di controllo politico sulle dinamiche sociali, si potrà cominciare a migliorare la qualità dell’informazione generata in rete. Forse. Alla fine l’esperienza di questi ultimi decenni mostra come le logiche delle piattaforme polatizzanti favoriscono le tendenze disgreganti della società: immersi in dinamiche storiche orientate alla frammentazione sociale, alla polarizzazione economica, alla radicalizzazione ideologica, i media digitali non contribuiscono alla qualità della convivenza. I media vanno progettati come metodologie di valorizzazione del terreno comune: nelle democrazie la diversità è ricchezza, la divisione è povertà.

È ancora possibile dare una direzione alla progettazione degli strumenti della comunicazione nella civiltà occidentale della quale i cittadini possano essere orgogliosi. Ma si parte da un periodo in cui questo non è stato perseguito in modo consistente. Anzi. Il resto del mondo non sembra proprio fidarsi della qualità umana della civiltà occidentale. Non si può non vedere che ci sono delle ragioni per questo. Ma si può anche dire che il potenziale civile occidentale potrebbe essere valorizzato meglio.


La fine delle privatizzazioni ideologiche sembra storicamente in corso. Forme di statalizzazione sono in vista nelle telecomunicazioni e nelle infrastrutture in paesi marginali ma particolarmente indicativi delle strategie politiche dei grandi poteri internazionali, come l’Italia. Il tema della statalizzazione di internet si pone. Come del resto si pongono i temi di ridefinizione della policy di internet grazie all’azione della Commissione europea. Questo è un quadro in movimento. Quello che per ora si vede poco è l’iniziativa di coloro che dovrebbero cogliere l’opportunità del nuovo contesto storico per creare alternative alle forme assunte da internet nel periodo prettamente finanziario e neoliberista. Le università, i musei, le biblioteche sono tra le istituzioni che identitariamente sono chiamate a contribuire con conoscenza di qualità. Il problema è che devono imparare a svolgere il loro lavoro nel mondo digitalizzato. Con la consapevolezza che possono contribuire alla prossima grande ondata innovativa.


Foto: “SCUOLA NORMALE SUPERIORE” by fabiogis50 is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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