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La banalità dei media e il potere

Ruben Durante (Universitat Pompeu Fabra, Barcelona), Paolo Pinotti (Università Bocconi) e Andrea Tesei (Queen Mary University) hanno pubblicato su “American Economic Review” un articolo sull’influenza politica dei modelli culturali propugnati dalla tv commerciale: The Political Legacy of Entertainment TV. L’articolo è stato ripreso da moltissimi giornali. Ma l’analisi merita di essere ulteriormente discussa per le sue relazioni con la fase attraversata attualmente dal sistema mediatico.

Gli autori hanno cercato di scoprire le conseguenze cognitive e culturali di un’esposizione significativa alla tv commerciale. Hanno notato che nella popolazione precocemente esposta alla tv di Berlusconi si manifestano maggiori probabilità di comportamenti civicamente disimpegnati, di scelte elettorali populiste e di risultati peggiori ai test di intelligenza.

Ovviamente si tratta di correlazioni e non cause. Ma la ricerca ha il merito di porre l’accento sulla relazione tra la struttura commerciale della televisione, la banalità del divertimento che è logico proporre in quel contesto e i rischi per la qualità della formazione culturale che corre chi si immerge in quei contesti mediatici. I media sono ambienti nei quali si sviluppa la personalità degli umani, non solo e non tanto in base ai contenuti trasmessi ma anche e soprattutto in base alle strutture e alle logiche essenziali di quei media: la media ecology è una disciplina fondamentale per tener conto di tutto questo.

Ebbene: quali sono le relazioni tra le conseguenze cognitive e culturali della televisione commerciale degli anni Ottanta e Novanta e il mondo dei social network emersi negli anni Duemila? Le differenze sono enormi. Apparentemente, tra la scarsità di canali tv del mondo analogico e la quantità infinita delle alternative offerte dai social digitali, la distanza è incolmabile. Del resto, la quantità di dati di cui si può disporre oggi per indirizzare i messaggi e trovare i soggetti più influenzabili è infinitamente più grande e sofisticata di quella di cui disponevano i “persuasori” del mondo televisivo. Ma alcune analogie balzano agli occhi: in entrambi i casi la struttura mediatica era modellata dalla logica della pubblicità, in entrambi i casi l’innovazione mediatica “disintermediava” il controllo sui contenuti detenuto dai media precedenti e si presentava come liberatoria, in entrambi i casi gli utenti erano conquistati più con la banalità che con l’impegno culturale. Né la televisione né la rete digitale sono fatte per essere macchine della banalizzazione: possono anche essere interpretate invece come generatori di altissime opportunità culturali; ma non c’è dubbio che nei casi della tv commerciale e di Facebook a prevalere è stata la logica della conquista dell’attenzione e non la ricerca della qualità culturale.

In questi contesti, ci si concentra sull’interpretazione delle esigenze dei consumatori, che sono i principali destinatari della pubblicità. Ma, in questi contesti, i consumatori non possono essere detentori di gusti e bisogni indipendenti dalla pubblicità. Anche se ideologicamente si trattano i consumatori come esseri razionali in grado di valutare la propria utilità e dunque si esaltano le esigenze dei consumatori come se potessero essere il criterio di giudizio sociale fondamentale, in realtà si analizzano i consumatori per la loro influenzabilità e di fatto si propone loro tutto ciò che li può influenzare in maniera coerente con ciò che interessa al mondo degli inserzionisti pubblicitari. Le conseguenze di questa manipolazione potrebbero essere, come indicato dallo studio citato, in una correlazione tra l’esposizione ai media e una cultura del disimpegno civile, una preferenza per messaggi populisti, un peggiore quoziente di intelligenza.

Se i consumatori come entità sociale fondamentale diventano elettori e se gli elettori vengono trattati da consumatori la conseguenza politica è devastante. La politica che viene eletta dai consumatori sceglie di investire meno nella scuola e più negli incentivi al consumo, sceglie di investire meno nelle imprese e più nelle pensioni, e così via. Un loop negativo era avviato.

L’ideologia della razionalità del consumatore ha contagiato anche chi ha creduto nella razionalità dell’elettore. Il rispetto per l’elettore ha impedito ai partiti dell’élite più colta e meno esposta ai media della banalità di dire che i loro avversari erano votati da persone meno intelligenti. E meno male che non l’hanno detto. Anche perché nessuno è immune dalla banalità. Però l’analisi che occorre per uscire da questo loop resta ancora da sviluppare.

Dove si trova una nuova fase politica e culturale? Un’idea potrebbe essere di cercarla nel nuovo concetto di lavoro. Ma non basterà.

Nell’economia della conoscenza, chi si identifica in un lavoro culturalmente esigente e creativo è incentivato a investire sulla propria formazione e a valutare la propria esposizione ai media in funzione dei risultati di qualità culturale che ne ottiene. Questa categoria identitaria probabilmente è post-consumeristica ed è meno influenzabile dalla banalità dei messaggi manipolatori. Non potrebbe avere successo nell’economia della conoscenza senza un buon senso critico e un accesso crossmediale alla cultura.

Chi cresce in questa nuova cultura del lavoro però – in un contesto polarizzato – è solo una parte della popolazione. L’altra parte della popolazione resta confinata in un mondo nel quale il consumo è più importante e gratificante del lavoro. Probabilmente, in questo senso, i “lavoratori” oggi sono l’élite e i consumatori sono alla base della piramide sociale. (Si veda: Polarizzazione nel lavoro. È un mega-trend. Nuove evidenze dalla Germania).

È possibile che chi sta al vertice della piramide, si identifica con il lavoro e cresce culturalmente, si trovi ad essere sempre più diverso dagli altri che restano indietro. Ma se sono gli altri ad essere la maggioranza e se sono gli altri a decidere il governo, l’élite si trova in un contesto inadatto al proprio sviluppo. Quindi il problema dell’élite è quello di smettere di cavalcare la polarizzazione e cominciare a inventare una nuova redistribuzione. Questa volta non si tratta solo di redistribuire il reddito: si tratta di redistribuire la conoscenza.

L’élite non è più il ceto che domina gli altri e si avvantaggia dei suoi privilegi. L’élite diventa chi guarda più lontano e per poter conservare il proprio vantaggio deve dedicarsi al vantaggio anche degli altri. Esercita una leadership culturale per sé e per gli altri in una logica nella quale o si vince insieme o si perde insieme.

In questo contesto non basta parlare di lavoro del futuro. Occorre anche parlare di leadership del futuro.

Il potere non è certamente favorevole a tutto questo. Quindi una forma di ribellione va coltivata. Contro la banalità ci si può ribellare. Come? In maniera non-violenta. Con pazienza. Con rispetto degli altri. Con la ricerca e l’intelletto di chi vive oggi, non nel passato. Con l’altruismo di chi pensa a chi verrà dopo di noi. Chi ha detto che sarà facile?

Vedi:
The Political Legacy of Entertainment TV
Junky TV is actually making people dumber — and more likely to support populist politicians
You are what you watch: The social effects of TV
Polarizzazione nel lavoro. È un mega-trend. Nuove evidenze dalla Germania
Così Mediaset ha fatto vincere Berlusconi e i Cinque stelle
Televisione ad effetto immediato
La tv dei populisti
Vedi anche:
Così le reti Mediaset hanno creato il voto Pdl
LA TV DI BERLUSCONI AIUTA M5S?/ La “non notizia” mentre il Cav affonda nei sondaggi
L’Italia è il Paese che amo

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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