Una bellissima intervista di Massimo Russo a Jeff Bezos sulla Repubblica. Un uomo chiaro e netto. Con un senso del limite e della possibilità di superarlo. Chi lo ha incontrato ricorda la sua risata, gli occhi accesi e a tratti persino empatici, le parole dirette e semplici: si ritrova tutto molto ben descritto nel pezzo di Massimo.
Un passaggio però merita una discussione.
Quando commenta il modello di business dei giornali:
A proposito di passioni, a titolo personale lei ha acquistato il quotidiano Washington Post. I media tradizionali hanno un futuro? E sarà un settore basato sulla pubblicità o sugli abbonamenti?
“Ci saranno modelli diversi, alcuni giornali – non tutti – ce la faranno. A fianco a loro stanno crescendo testate solo digitali, già le vediamo. Il Washington Post avrà un futuro brillante. È sempre stato uno straordinario quotidiano locale con una reputazione globale, ora abbiamo la possibilità di farne un giornale globale con una reputazione altrettanto globale. Stiamo provando la transizione da una testata che traeva molti ricavi da un numero tutto sommato ristretto di lettori, a una che realizza meno ricavi per utente, ma con una platea assai più vasta. Penso che questo sia l’approccio giusto per il Post, per altri invece potrebbe non funzionare”.
Dunque il giornalismo non dovrà per forza affidarsi alla filantropia o al non profit.
“È salutare e opportuno che una testata sia in grado di sostenersi da sé. È il modello che ha funzionato a lungo, non c’è motivo per il quale non sia possibile tornarvi”.
Bezos vede un giornale globale con basso valore aggiunto e alto volume. Come una piattaforma. Quindi con una forte tecnologia al servizio del lettore. Bezos non parla di pubblicità, abbonamenti, vendite: sostiene però che il suo giornale avrà ricavi sufficienti a sostenersi. E c’è da credere che se un giornale potrà davvero arrivare a esplorare tutte le possibilità offerte dalla tecnologia per rilanciare la funzione fondamentale del giornale, con pazienza e visione di lungo termine, quel giornale sarà il giornale di Bezos.
Stupisce peraltro la scarsa considerazione della filantropia come forma di sostegno al giornale della comunità. In fondo, già oggi, chi compri un giornale in edicola invece che trovare quasi tutto quello che ha il tempo di leggere online gratuitamente fa un po’ di filantropia: sostiene volontariamente il giornale. Ma a parte le battute, il merito di sistemi di informazione di comunità e sostenuti dalla comunità è del tutto possibile. Costituisce anzi uno stimolo ai giornali orientati al profitto per fare inchieste e per lavorare con metodo giornalistico sano, per non rinunciare alla loro anima pur di fare utili. ProPublica fa esattamente questo: vive di filantropia, ma realizza inchieste da Pulitzer che ricordano a tutti i giornali che quello è il loro vero e principale obiettivo.
Esiste la concorrenza tra i modelli economici dei giornali. Ma esiste anche la concorrenza tra i modelli culturali dei giornali. I giornali che vivono solo di pubblicità tendono a finire preda dell’alternativa diabolica tra la fedeltà al lettore e la fedeltà all’inserzionista. I giornali che vivono di abbonamenti e vendite devono dare soddisfazione al pubblico, con il servizio di valore, ma possono trovarsi alle strette economiche e a quel punto decidere di rinunciare a investire nella ricerca dei giornalisti. I giornali di comunità possono fare inchieste con il sostegno dei loro lettori e ricordare a tutti i giornalisti perché hanno cominciato a fare il loro mestiere. Il modello “for profit” sano e orientato al servizio dei lettori è un grande modello. Ma di certo, il “for profit” non è l’unico modello economico valido. Imho.
Nell’ecosistema, la biodiversità è un valore. Nell’ecologia dei media, l’infodiversità è un valore.
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