Ci si domandava giusto questo, qualche giorno fa: Ma voi come rifareste lo stato digitale? Una domanda aperta: una domanda strategica, latente, fondamentale; mentre comincia una nuova fase di rilancio progettuale del contributo dello stato alla digitalizzazione del paese (come avviene in questi giorni) quale approccio si deve adottare; una strategia di aggiustamento progressivo della struttura attuale o la realizzazione di una cosa totalmente nuova?
È una domanda ingenua. Chiunque abbia un minimo di esperienza operativa con la burocrazia sa che un salto completo in un nuovo contesto tecnologico è difficile per una macchina così complessa come lo stato. Ma chiunque abbia un minimo di esperienza con i tentativi di riforma della burocrazia sa che senza uno strappo forte vince il muro di gomma. Insomma, l’esperienza aiuta, è necessaria, ma non risponde alla domanda di fondo.
Alcuni hanno segnalato soluzioni tecnologicamente spinte. L’idea di costoro è che la tecnologia può essere interpretata come una macchina che implacabilmente genera riforma: si aggioga il cavallo della tecnologia al carro della burocrazia e si ottiene una corsa inarrestabile nel progresso. Ma la tecnologia deve essere quella giusta. Un esempio di questa tecno-fede è nel pezzo di Nicholas Hann, Singularity University: Why We Need Government to Evolve as Fast as Technology. L’idea è che l’amministrazione sia una macchina e che quindi possa essere progettata e attivata come una macchina contemporanea, che evolve velocemente, che si adatta agilmente, che agisce aggressivamente per disintermediare le posizioni di rendita e accelerare il cambiamento. Basta che si sincronizzi con la spinta esponenziale dell’organizzazione tecnologicamente avvertita.
Forse è un’idea un po’ unilaterale. Anche perché non è chiaro qual è il processo che conduce una macchina burocratica ad accettare questa logica. La competizione di altre burocrazie, la concorrenza di altri stati? Si ha l’impressione che la questione sia molto più complicata. Andrebbe discusso con calma: ma la logica prevalente è un complesso equilibrio di relazioni tra persone, consenso politico, operazioni di emergenza, quotidianità routinaria, corruzione, gestione del potere, e così via. Dove può intervenire la cristallina logica della rivoluzione tecnologica? Probabilmente o in un momento particolarmente illuminato di un sistema che si autoriforma o in una crisi talmente profonda che solo una riforma completa può servire a qualcosa.
D’altra parte, la strada delle riformine a piccoli passi, che non scontentano nessuno o peggio che scontentano senza cambiare davvero le cose, non sembra molto produttiva. Specialmente in un paese che ha fretta di riprendere un percorso di progresso. E specialmente in un’epoca in cui le persone possono confrontare l’efficienza semplice e divertente di alcune applicazioni che usano normalmente nella loro vita quotidiana e il trattamento da incubo che viene loro riservato dalla burocrazia.
Forse una strada è quella che è stata adottata nelle grandi aziende che sono riuscite a passare da una struttura lineare (input, lavorazione, output) a una struttura da piattaforma (al servizio di un “ecosistema” di sviluppatori o utilizzatori-produttori). La riforma era radicale. Talvolta è stata realizzata mentre l’attività normale continuava e lo switch off è avvenuto in un solo momento: forse è una soluzione adatta a una condizione relativamente semplice. Talvolta invece è avvenuta portando l’insieme nella logica della piattaforma a partire da qualche attività innovativa che poteva avvenire in parallelo, conquistare attenzione e traffico e finire per fagocitare l’insieme. Un esempio? L’anagrafe che diventa la base per produrre il profilo del cittadino sul quale si fanno tutti i documenti fondamentali e che poi nel tempo attira tutte le funzioni che hanno a che fare con la sua identità civica. Un altro esempio? Il catasto che diventa una mappa totale delle attività che avvengono sul territorio. Un altro esempio? L’affidamento a un progetto pubblico-privato dei servizi a valore aggiunto, che accelerano i tempi delle decisioni necessarie alle imprese e che una volta operata una decisione ne assicurano la tenuta di fronte alle diverse autorità competenti: molta sicurezza, molto valore, molto business pubblico-privato. Queste idee sono già attive, in parte. Ci vorrà una strategia forte e un’operatività coerente per portarle avanti, insieme a tutto il resto dei piani pubblici in materia di digitalizzazione e riforma.
Ma un afflato utopistico, in tutto questo, non può mancare. Senza un’ingenuità consapevole non si farà molto. Senza una forza ideale ci si fermerà presto. Senza umiltà e rispetto per chi già oggi si impegna a far funzionare la macchina dello stato, con i limiti dei mezzi che ha a disposizione, non si otterrà la collaborazione e la solidarietà delle energie migliori. L’utopia non è un pensiero che non si realizza: è uno sforzo progettuale che coltiva una motivazione umanamente sensata.
E un’occhiata alla Dichiarazione dei diritti in internet, per progettare questa riforma, potrebbe essere una buona pratica.
ps. Tutte queste opinioni e considerazioni sono un po’ una sintesi dei suggerimenti pervenuti nei giorni scorsi, dopo il post citato in apertura. Spero che questi suggerimenti continuino ad affluire dopo questo post. Sempre che appaia dotato di senso, almeno un po’.
Commenta