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John Kay: la natura della conoscenza nel contesto internettiano

È chiaro che Google ha un’influenza culturale enorme. Ed è evidente che internet nell’insieme ha contribuito a cambiare l’approccio alla conoscenza. Nicholas Carr ha voluto vedere il bicchiere mezzo vuoto scrivendo il suo famoso articolo: “Is Google Making Us Stupid?“. Altri, come David Weinberger (“Too big to know“) e Clay Shirky (“Cognitive Surplus“) hanno visto le grandi opportunità che la condivisione delle conoscenze abilitata dalla rete offre alla crescita della cultura. Di certo, la strategia di memorizzazione è cambiata, inducendoci a ridurre lo sforzo per ricordare i fatti e contemporaneamente ad aumentare l’attenzione che dedichiamo a imparare dove trovare i fatti.

Ma John Kay ha trovato una sintesi per comprendere in che modo internet ha cambiato la strategia dell’approccio alla conoscenza. Dice: «Today it is less important to know, and more important to know what is known» (è in un pezzo su Ft, paywall). È un modo sottile per comprendere meglio di che cosa stiamo parlando. Kay sottolinea il fatto che per essere produttivi quando cerchiamo online abbiamo bisogno di sapere che cosa stiamo cercando. Dunque in generale che la conoscenza personale internettizzata è fatta meno di dati e più di quadri interpretativi. In qualche modo ciò che conta è la cultura di fondo, mentre conta meno la singola nozione. Se qualcosa è “conosciuto” lo troveremo su internet, se qualcosa non è conosciuto non lo troveremo: dunque cercare su internet ha senso se sappiamo indipendentemente da internet “che cosa è conosciuto”.

Ovviamente la formula di Kay non esaurisce il tema della conoscenza, ma solo la sua dimensione pragmatica. Le domande filosofiche, la spinta all’esplorazione di ciò che è sconosciuto, la ricerca e tutto ciò che alimenta il dinamismo della cultura e delle stesse conoscenze disciplinari resta al di fuori di questa formula pragmatica. Ma non c’è dubbio che Kay aiuta a mettere al suo posto la preoccupazione di Carr e porta a una conseguenza fondamentale: la scuola deve adeguarsi.

Già, perché il tema di Kay è proprio questo. Se le nozioni si trovano sempre più facilmente online, la scuola deve formare a conoscere ciò che è conosciuto e dunque aiutare le persone a essere efficienti nell’approccio alla conoscenza online. Non ha senso, dice l’economista Kay, continuare a immaginare la scuola come una sorta di preparazione al lavoro, come una forma di addestramento, proprio in un periodo in cui le nozioni che sono servite a definire le competenze necessarie a svolgere certi lavori servono meno e il lavoro stesso cambia in modo radicale: ha senso preparare le persone all’economia della conoscenza e dunque all’approccio generale alla conoscenza. Il punto di base è dunque preparare le persone a riconoscere ciò che è conosciuto, dice Kay. Perché nello svolgimento pragmatico del loro mestiere internet può servire molto, purché si sappia che cosa si può trovare.

La scuola può fare anche di più, ovviamente. Perché se la conoscenza è alimentata dalla condivisione, la scuola può insegnare a collaborare di fronte alla conoscenza. E se la conoscenza è il valore fondamentale dell’economia, la sua innovazione discende dalla ricerca: quindi la scuola può alimentare l’esperienza e l’apprezzamento del metodo con il quale si cerca di conoscere ciò che non è conosciuto.

La scuola è insomma alla frontiera di ciò che è veramente importante e deve chiaramente adeguarsi. Kay aiuta a vedere che questo vale non solo per le sue funzioni più avanzate ma anche per le basi stesse del suo funzionamento quotidiano.

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  • Veramente la scuola italiana di 50-30 anni fa faceva benissimo, ed era studiata da tanti altri paesi per questo, proprio il compito di insegnare ad imparare, ad avere l’amore per lo studio, a capire i meccanismi base della cultura. Poi a partire dalla sciagurata riforma di Luigi Berlinguer, e via via precipitando con tutte le riforme successive, siamo arrivati ad una scuola nozionistica come poche, dove gli studenti si annoiano e non capiscono a che serva, dove gli insegnanti si annoiano e non capiscono a che serva, che in breve non serve.
    Ma non si può tornare indietro? Non si può fare una vera riforma della buona scuola che abroghi tutte le riforme precedenti, compresa questa targata Renzi che non serve a cambiare nulla nel funzionamento del quotidiano nella vita scolastica?

  • Ottimo post.
    Kay usando altre parole (“innumeracy”) riprende imho il grande tema dell’analfabetismo funzionale, trattato a fondo da Ocde e in Italia da Isfol.
    Oltre alle scuole, che tu giustamente citi, ci sono altre istituzioni che in modo forse poco coordinato e visibile stanno lavorando su questo. Sono le biblioteche, o perlomento quelle biblioteche che hanno spostato il loro focus dalla conservazione dei libri (attivita’ di per se’ meritoria), al facilitare l’accesso all’informazione, organizzando iniziative di “information literacy” volte a migliorare la consapevolezza sulla complessità dell’infosfera digitale, sviluppare efficienza nella ricerca e sensibilità nel valutare e contestualizzare l’informazione granulare che Internet espone.
    Queste attività sono importanti perche’ le biblioteche civiche, a differenza delle scuole, hanno luoghi e opportunità per realizzare iniziative “free to all”, radicalmente aperte a tutti. E si stanno dando da fare.
    I bibliotecari stanno iniziando a mappare meglio queste iniziative, ma imho vanno soprattutto promosse alleanze e ibridazioni con tutti gli information worker.
    Disclaimer: il mio punto di vista è influenzato dal fatto che sono bibliotecaria e da tempo mi occupo di questi temi.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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