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La legge e l’algoritmo. Google, la Corte Ue e l’ecosistema di internet

L’immagine di una persona che non conosciamo è quella che Google restituisce nella prima schermata quando ne cerchiamo il nome online. E’ l’esperienza raccontata da Aaron Balick nel suo bellissimo libro The Psychodynamics of Social Networking: Connected-up Instantaneous Culture and the Self (via Giuliano Castigliego). Ed è un’esperienza che appare condivisibile in una quantità di casi. Potrebbe cambiare quando Facebook riuscisse davvero a costruire un nuovo motore di ricerca basato sulle segnalazioni degli utenti piuttosto che su un algoritmo. Oppure potrebbe cambiare a causa della sentenza della Corte Ue che ha ritenuto Google responsabile dei link che portano a pagine che violano il diritto all’oblio.

libro_balickUna delle conseguenze fondamentali della sentenza – della quale non discutiamo qui l’aspetto giuridico – è che il motore di ricerca non è più uno strumento neutro, ma il prodotto di una specifica attività umana: dunque ha una sua responsabilità nella scelta delle informazioni che mette in luce o che nasconde. In effetti, lo sapevamo dal punto di vista logico, ma non ancora da quello giuridico. A questo punto viene fuori la responsabilità di chi decide come lo strumento costruisce le pagine che gli utenti si trovano davanti quando fanno una ricerca online. E ci si può domandare come cambierà quello strumento dopo una sentenza che impone a Google di tutelare il diritto all’oblio.

Commentiamo questo primo punto. Lavorando di fantasia si può immaginare che – a parte tentare di difendersi in tutte le sedi competenti, chiedendo magari anche modifiche legislative che superino la decisione della Corte – Google dovrà prendere provvedimenti. Con milioni di persone che potenzialmente possono chiedere a Google di modificare i link che portano a pagine indesiderate, Google potrebbe pensare di dotarsi di una struttura dedicata, oppure di inventarsi uno strumento da mettere a disposizione del pubblico desideroso di oblio, o chissà che cos’altro. Sta di fatto che non è più solo l’algoritmo a dettare legge nell’organizzazione dell’informazione in rete: è anche l’azione sociale degli utenti. Questo ha conseguenze imprevedibili, in un ecosistema complesso come internet. C’è una sorta di precedente: YouTube ha messo a disposizione di una certa categoria di utenti uno strumento per intervenire sulla pubblicazione di video da parte di altri utenti, quando i primi sono detentori di copyright e i secondi sono da loro considerati pirati. Lo strumento è abbastanza oggettivo. Ma è comunque una forma di cessione di potere: dalla macchina agli utenti.

L’algoritmo era fatto da persone. Il potere dell’algoritmo era il potere di quelle persone. Non si può dire che non avessero delle responsabilità. Le loro scelte avevano importanza. Se avessero pensato di dare pesi diversi alle pagine in base alla data di pubblicazione, oppure se avessero tentato di costruire pagine specifiche per le ricerche sulle persone che restituissero informazioni più complete sulla loro identità online, oppure se avessero inventato un altro modo per dar conto delle informazioni controverse, insomma se avessero pensato soggettivamente al diritto all’oblio, forse la sentenza sarebbe stata diversa. Ma avrebbero dovuto scegliere soggettivamente di favorire il diritto all’oblio sul diritto a fare ricerche storiche oppure alla libertà di espressione o altro. Hanno scelto come hanno scelto e la Corte ora impone un altro punto di vista. Un potere si è opposto al loro potere. E apre la strada a una cessione di potere dalla macchina agli utenti.

L’algoritmo non era logicamente neutro in passato di fronte alle informazioni, ma di sicuro non lo sarà più in futuro. L’algoritmo non è più un manufatto di ingegneri: diventa un lavoro anche di avvocati, sociologi e altro.

Google può essere molto scontenta di tutto questo. Gli esperti commentatori non hanno, mi pare, preso una posizione decisa sulla questione. La sua ambiguità è notevolissima. Anche perché le sue conseguenze sono imprevedibili, per la logica dell’ecosistema.

Ipotesi? Alla lunga, sempre che non cambi nulla, verrebbe da ipotizzare che Google verrà spinta a diventare una media company sempre più simile a un editore. In fondo, se i suoi link alle pagine sono un costrutto intellettuale dotato di responsabilità e, vagamente, autorialità, c’è il rischio che alla lunga Google evolva più velocemente verso il ruolo di un editore del futuro, sempre molto ingegneristico ma – volente o nolente – con un punto di vista culturale. Per gli editori del passato sarebbe una guerra frontale, che finora è stata evitata per l’identità strumentale del motore. E non sarebbe una guerra facile da vincere. Oppure si potrebbe ipotizzare che Google venga spinta a diventare utility, dunque molto regolamentata. E’ il sogno delle compagnie telefoniche, probabilmente. Ma sbaglierebbero a pensare che in questo modo ne trarrebbero un gran vantaggio. O ancora potrebbe diventare qualcosa di diverso nei vari paesi in cui opera: poiché le leggi variano nei vari paesi, si adatterebbe ai diversi mercati. E’ anche possibile che, in Europa, Google si adatti chiudendo le sedi nei paesi più difficili e tenendole aperte solo nei paesi più facili per il suo business (dal punto di vista fiscale e da quello dei diritti degli utenti) contando sul mercato unico.

L’ecosistema internettiano si aggiusterà al cambiamento. Ma una questione diventa sempre più urgente. Con l’aumentato potere delle autorità politiche e giudiziarie occorre che ne aumenti anche la competenza tecnica: come la tecnologia diventa meno neutrale dal punto di vista culturale e giuridico, anche le leggi e chi le interpreta devono diventare più competenti tecnicamente, più “ingegneristiche”, semplici da usare, chiare e il più possibile obiettive. L’algoritmo era una legge chiara e semplice: fosse stata anche trasparente, Google avrebbe avuto più sostenitori, forse; ma le leggi che intervengono a correggerlo devono essere altrettanto chiare e semplici. Altrimenti l’ecosistema ci perde. Insieme a tutti noi.

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  • Intelligente e complesso, come al solito. Però mi pare che eluda un problema: l’archivio. L’archvio è un oggetto e luogo strano, punto d’incrocio di scelte umane, serendipity, logiche burocratiche, storia, geografia, materialità dei supporti ecc. La logica che si sedimenta in un archivio non è trasparente, le priorità di organizzazione dell’archivio sono incomprensibili. Però c’è un dato di fondo: l’archivio, un buon archivio serio, conserva tutto, sempre. Sopravvive per quanto possibile ai cambiamenti politici, alle paure e bisogni grandi o mediocri degli uomini, alla marxiana critica roditrice dei topi, al disordine e alla follia dell’Archivista, alla ferocia dell’Inquisitore, alla voglia di riscrivere le storie individuali e collettive, alle damnatio memoriae ecc.
    Sarebbe utile confrontare questa logica dell’archivio con quello che è e fa Google.Forse si scoprirebbe che in fondo, a modo suo, Google è la forma contemporanea dell’Archivio. A condizione che conservi tutto. La sentenza della Corte di Giustizia pretenda che dall’Archivio si possa cancellare quello che non ci piace. Mi ripugna. L’Archivio va sempre e infinitamente protetto dalla volgarità degli uomini, che qualche modesto personaggio si affanna a chiamare “privacy”.

    • ciao Enrico grazie! sull’archivio citavo nel pezzo appunto il “diritto a fare ricerche storiche” per alludere anche a questo tema che meritava certo una sottineatura e un approfondimento. E grazie davvero per aver colto l’occasione. Mi domando proprio come sia l’archivio del futuro. Google si occupa dei link per trovare le informazioni e con la sentenza viene spinta verso gli interessi dell’attualità piu che quelli della storia. Archive.org è forse più simile a un archivio in quanto conserva anche le pagine che sono state cancellate dai loro autori o host. Il suo successo è inferiore a quello di Google e forse questo la preserva. Anche questo fatto fa riflettere, no?

  • E’ giusto ragionare su cosa sia meglio per l’ecosistema ma quando la tecnica si trova di fronte ad un bivio tra due o più diritti – il diritto all’oblio rispetto al diritto di fare ricerche storiche oppure di libertà di espressione o altro – occorre chiedersi se sia più giusto che che la decisione finale su quale compromesso sia più accettabile sia presa da un potere “legittimato” che deriva da un mandato collettivo oppure che sia presa da una società che ha acquisito tale potere in virtù del suo (pre)dominio della tecnica (e che persegue i suoi legittimi interessi anche quando non coincidono con quelli dell’ecosistema).
    La cessione di potere altro non è che la riconquista del primato del diritto sulla tecnica.
    Poi si può ragionare sulle chance che il diritto sia effettivamente in grado di piegare la tecnica anche quando prevale nelle aule giudiziarie (ahimè, in assenza di organismi regolatori internazionali molto basse).

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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