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Commenti sull’ideologia e il ragionamento

Il post precedente ha ricevuto una serie di commenti sia nel blog che nei social network. Alcuni di questi commenti chiedevano una maggiore attenzione al concetto di ideologia. Altri si concentravano sulla questione della stupidità. Altri ancora tiravano fuori una sorta di ipotesi: che la critica dell’ideologia sia frutto di una cultura capitalistica orientata ad abbattere ogni ideologia.

Sul primo punto concordo che c’è molto da dire. In un libro del 2003, intitolato “Edeologia. Critica del fondamentalismo digitale“, discutevo di una sorta di ideologia dell’elettronica e delle sue conseguenze. Senza dimenticare di fare qualche riferimento – molto incompleto ma comunque storicamente articolato – all’evoluzione del concetto di ideologia. Che è partito come “discorso sulle idee” e si è sviluppato come “uso strumentale delle idee”. L’edeologia, scrivevo, ha avuto una funzione attiva nel convincere molte persone a connettersi a internet, quando questa connessione non aveva tutto il valore che ha oggi: come si sa, infatti, una rete che non abbia utenti non ha valore, e una rete che abbia pochi utenti ha meno valore di una rete con molti utenti. È il cosiddetto effetto-rete, o “legge di Metcalfe”, che in qualche modo dice che il valore di una tecnologia di rete aumenta geometricamente con il numero degli utenti. Insomma: a spingere molte persone a connettersi quando in rete c’erano poche persone, e dunque connettersi aveva poco valore, ha concorso anche una sorta di ideologia che interpretava internet come spazio di per sé liberatorio. Era un’ideologia che aveva chiaramente una parte di ragione, ma era basata più su una “visione” che su una ipotesi controllata. Succede spesso con le innovazioni che devono convincere ad essere adottate. E ha una funzione spesso molto positiva.

In generale, un’ideologia ha la funzione di chiamare all’azione molte persone in base a una “visione” o a un’analisi rivolta a definire come sarebbe la realtà se succedesse qualcosa. Una volta che l’azione è stata compiuta, quando cioè la “visione” che sostanzia un’ideologia può essere messa a confronto con i fatti, non tenere conto dei fatti diventa poco ragionevole. In questo c’è la radice di una forma di “stupidità”, nel senso usato nel titolo del famoso articolo di Nicholas Carr “Is Google making us stupid?“. Un articolo che ha suscitato a suo tempo – 2008 – un largo dibattito e che a questo punto è ampiamente superato. La parola “stupidi” però può suonare offensiva – e in questo caso mi scuso di averla usata. Ma il suo utilizzo si riferiva al contenuto dell’esperimento citato nel post tanto commentato.

Quell’esperimento sottolineava in un certo senso la distanza tra l’intuizione il ragionamento controllato, nel senso proposto dagli studi di Daniel Kahneman. Nella maggior parte dei casi, dice Kahneman, gli esseri umani decidono in base all’intuizione, cioè alla prima cosa che viene loro in mente (per motivi vari). Solo raramente si concentrano e fanno un ragionamento. Questo avviene a tutti, anche alle persone molto razionali e scientificamente preparate. L’esperimento citato nel post precedente consentiva di dire che anche l’ideologia è un fattore che favorisce una decisione o un giudizio superficiale, basato sulla prima cosa che viene in mente. Quindi sfavorisce il ragionamento. Che questo possa essere definito “stupido” è una questione di linguaggio. Ma che sia poco razionale è una questione fattuale.

Di certo, però, tutto questo non ha niente a che fare con la cultura capitalista che è riuscita a farsi strada negli ultimi trent’anni. E alla cui critica ho dedicato larga parte di “Economia della felicità” e di “Cambiare pagina” (mi scuso per le tre autocitazioni, ma qualche volta ci vuole). La cultura capitalista ha contribuito certamente a diffondere nell’Occidente un’idiosincrasia per le ideologie di origine socialista, statalista e solidarista. Ma a sua volta è pienamente un’ideologia. L’avanzata della cultura capitalista partita negli anni Ottanta ha strumentalmente usato le analisi liberiste per far credere che la libertà di mercato e la concorrenza era il modo migliore per allocare le risorse: ma non c’è una parola nell’approccio neoclassico all’economia che sia fattuale; si tratta di pura ideologia. Il ragionamento che la sottende è coerente – più o meno – ma non ha riscontro nella realtà e nella storia. Non esiste l’homo oeconomicus, non esiste la concorrenza perfetta, non esiste la perfetta informazione di tutti gli operatori economici. Seguendo Fernand Braudel, al massimo, si può riconoscere una dimensione concorrenziale nei mercati governati da regole e consuetudini orientate a salvaguardare la concorrenza, ma sempre secondo Braudel, questa non è in nessun modo la dimensione del capitalismo, che invece è priva di concorrenza, fondata sull’enorme potere finanziario di pochi che approfittano di ogni alleanza con il potere politico per costruire una condizione anti-concorrenziale a loro favorevole. La cultura capitalista degli ultimi trent’anni è fondata sull’ideologia, non sui fatti. Non è contro l’ideologia, dunque: è contro l’ideologia avversaria. E spesso si rivela contraria anche alla ragione. Almeno quando sostiene che la sua applicazione garantisce la migliore allocazione delle risorse possibile. Le crisi degli ultimi trent’anni (1987, 2000-2001, 2007-2013 “and counting) lo suggeriscono abbondantemente. Visto che si può dire che senza l’intervento statale gli americani non ne sarebbero usciti. E gli europei non sembrano orientati a uscirne facilmente.

Le ideologie hanno una funzione. Non eterna. A un certo punto, vanno messe da parte. E quel punto arriva quando l’analisi dei fatti e il ricorso a valori innovativi possono condurre a idee migliori.

Vedi anche
Labour pains, Economist

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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