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I soldi dei giornali

Alessandro Gilioli ha commentato il post di ieri, nel quale si parlava dell’eventuale ruolo dei giornalisti nel contesto mediatico che si va costruendo. Così:

“Sì, Luca, ma forse sarebbe sottolineare il fatto che la pubblicità on line paga un decimo – ad andar bene – di quella su carta, e che quindi se questa cosa non cambia parecchio, e in fretta, le aziende di media saranno per forza costrette a produrre – sul Web o altrove – un giornalismo di qualità più bassa.
A me non frega nulla della carta in sé, non è una piattaforma a cui sono in alcun modo affezionato.
Quello di cui si deve discutere non è questo, è il fatto che l’informazione professionale – quella che permette le inchieste, gli approfondimenti, la ricerca delle notizie spendendo tempo e denaro – se non trova un modello di business pubblicitario nelle nuove piattaforme rischia di essere molto più povera e ricattabile – altro che giornalismo libero e autorevole!
Credo che sarebbe utile se il dibattito si spostasse su questo”.

L’assunto del mio buon amico Alessandro è purtroppo discutibile: se gli editori guadagnano, finanziano giornalismo di qualità. Alessandro, come del resto – direbbe Mantellini – il tenutario di questo blog, non è un imprenditore né un manager. Ma è un ottimo osservatore. E certamente non può non vedere che il suo assunto è quanto meno ottimistico.
Si può essere d’accordo con Alessandro sulla considerazione a rovescio: se gli editori non guadagnano, non finanziano giornalismo di qualità.
Ma il problema è che molte aziende dei media hanno deciso di produrre giornalismo di bassa qualità pensando di guadagnare di più. E ora pagano l’errore.
Siamo circondati da un’editoria giornalistica di bassa qualità. Siamo circondati da notizie assurdamente ansiogene, come dice Antonio Scurati, in un’epoca che per questo paese è la più sicura e non violenta che sia capitata da secoli a questa parte. Siamo circondati da media che titillano le più basse voglie e i meno qualificanti istinti. Che confondono ambiguamente informazione, spettacolo e comunicazione. Che giocano con la strategia della disattenzione. E questo avviene perché si è pensato consciamente di costruire una realtà virtuale mediatica nella quale attirare ipnoticamente le persone e imprigionarle in una spirale pubblicitaria e promozionale che le ha fatte sentire semplici spettatori, consumatori, elettori. Non più persone attive e informate. Non abbastanza cittadini. Anche per questo, quei media che hanno inseguito strategie di breve termine, si trovano disarmati e poco credibili di fronte alla crisi. Per non parlare dei giovani che, anche prima della crisi, se n’erano già andati altrove. 
Certo, anche in questo contesto, il giornalismo di qualità non è mai mancato. Anche in questo contesto alcuni giornalisti, compreso Alessandro, hanno fatto ottime inchieste e reportage, mentre alcuni editori hanno finanziato la ricerca delle notizie costosa e appassionata. Per la verità, più spesso ultimamente con i libri e i documentari e i blog che con i giornali. Ma anche nei giornali si è fatto molto di buono. In un frame, però, molto confuso. E che nella confusione è stato capace di mettere la sordina all’importanza di quelle inchieste e di quella ricerca giornalistica sincera e appassionata.
A dirla tutta, il giornalismo di qualità che si è fatto negli ultimi tempi, è stato fatto nonostante tutto, grazie alla passione di alcuni giornalisti, alla lungimiranza di alcuni direttori, alla illuminazione di alcuni editori. E si può dire con buona sicurezza che proprio i giornali che hanno maggiormente mantenuto la barra della qualità saranno quelli che emergeranno meglio da questa crisi. Ma è pur vero che non c’è una correlazione forte tra la quantità di soldi che gli editori guadagnano e la qualità del loro giornalismo. Si può trovare ottimo giornalismo sui blog gratuiti, come si può trovare pessimo giornalismo, anche se molto costoso, nelle aziende mediatiche più ricche. Il guadagno degli editori è garanzia della possibilità che facciano un lavoro serio e indipendente: solo della possibilità però. Non è purtroppo garanzia che lo facciano davvero.
Alessandro però, ripeto, ha ragione nel dire che non ci può essere ottimo giornalismo se dall’ecosistema dell’informazione spariscono le aziende mediatiche che trovano un’indipendenza economica solida e duratura. Un impoverimento generalizzato e totale dei media non può avere che la conseguenza di impoverire l’intero ecosistema, perché riduce drasticamente le probabilità di un buon giornalismo. E ha ragione nel dire che la pubblicità online non può rispondere da sola alla crisi dei media tradizionali.
Ma va detto che gli imprenditori hanno proprio la funzione di trovare le innovazioni giuste per costruire modelli di business adatti a sopravvivere nelle diverse fasi dell’evoluzione dei sistemi economici. Sta a loro, prima di tutto, trovare le soluzioni aziendali. I giornalisti dovrebbero concentrarsi sull’obiettivo di comprendere bene quale può essere il loro ruolo nel nuovo sistema mediatico. E perseguire una trasformazione della loro funzione, in modo da servire il pubblico in sincronia con le sue esigenze.
Ma non ci possiamo neppure esimere dal ragionare intorno ai modelli di business. E dunque diamoci qualche ipotesi:
1. La crisi editoriale di questi mesi non è la fine del mondo dei media tradizionali. Ci sarà un consolidamento ma non una sparizione. L’estremismo non è una buona pratica previsiva. È piuttosto un atteggiamento ideologico. E i giornali che hanno fatto comunque più giornalismo di qualità avranno, almeno in parte, una sorte migliore.
2. La pubblicità cercherà sempre nuove strade per trovare il suo pubblico. Non avrà bisogno dell’informazione se potrà contare su forme più dirette di contatto, come il viral marketing. Non avrà bisogno di contenitori di qualità se cercherà soltanto la quantità di potenziali consumatori da colpire con i suoi messaggi. Basterà cercare i luoghi di intenso traffico. Ma avrà bisogno di contesti di qualità ogni volta che vorrà rafforzare la credibilità dei marchi. E sarà disposta a pagare di più per questo. Già oggi, le inserzioni sui siti di semplice traffico costano dieci volte meno di quelle che vanno sui siti più accreditati. Bisogna capirlo e valorizzare l’opportunità.
3. La pubblicità comunque non pagherà tutto quello che oggi è pagato dal prezzo dei prodotti. Ma non è detto che il pubblico non sia mai più intenzionato a pagare i servizi editoriali che lo meritano. Non necessariamente in termini di prezzo di accesso all’informazione. Ma per esempio in termini di sostegno volontario all’attività professionale di chi informa. E c’è già chi ci sta pensando. Il caso di ProPublica – con 7 premi Pulitzer in redazione – è solo un esempio.
Si pensa che non sia abbastanza? Le forme di esposizione della ricerca giornalistica si moltiplicheranno. E così le forme delle relazioni economiche tra i giornalisti e il loro pubblico. Si farà giornalismo in teatro e sul web, al cinema e con i libri. E questo non sarà che l’inizio di un rinnovamento mediatico necessario. Come una purificazione.
Sarà dolorosa. Ma occorre qualcosa di nuovo. I giovani devono poter ricominciare ad accedere alla pro
fessione giornalistica. I giornali devono potersi ridefinire in base al proprio scopo: distinguendo quelli che si dedicano più all’ideologia o alla comunicazione o all’entertainment, che all’informazione. Quelli che ritroveranno la strada saranno ripagati. Perché se la società ha bisogno di persone che, accanto ai volontari dell’informazione, si dedichino a fare informazione professionalmente con un metodo empirico e trasparente, probabilmente troverà il modo di pagarle.
(da vedere su questi argomenti, sempre in chiave giustamente problematica, State of the News Media, via il friendfeed di GG).
ps. Quanto alla carta. Non si vede perché debba sparire. Si andrà riposizionando. È un display molto costoso. Dunque dovrà contenere informazioni molto preziose.

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  • La tua analisi mi trova molto d’accordo. Visto che di mestiere faccio l’imprenditore e citi la categoria, qualche pensiero (per la serie sarò lungo).
    Ogni volta che entro in edicola sono stupito dal proliferare di carta. E incredulo che ci siano in giro così tante riviste. E so bene che la buona parte sono alla sopravvivenza con contenuti imbarazzanti.
    Sappiamo bene che esiste la serie A, la B e la promozione.
    Alessandro ha ragione se parliamo di serie A. Ma già oggi l’editoria specializzata e le riviste tecniche di settore sono fatte al risparmio e mantenute con la pubblicità.
    Quanto durerà? E quanto è credibile chi parla negli articoli solo di chi fa l’inserzione? E che qualità di giornalisti hanno?
    Basta sfogliare.
    Oggi il target sono ancora i 50enni che usano poco internet (ma con Facebook a mio parere le cose stanno cambiando) ma domani?
    Anche tenendo conto di una nuova generazione che (spero) sarà meno sottoposta al vincolo della lingua italiana.
    Domani la carta non morirà, a mio parere. Ma deve cambiare il modello di business.
    Oggi quanti dei costi vanno ai giornalisti e quanto in materie prime, stampa, organizzazione ecc?
    Non ho mai fatto un’analisi di bilancio di una azienda editoriale ma immagino i giornalisti in moltissimi casi siano una quota non altissima.
    Allora, lean production anche nell’editoria.
    Con una maggiore diffusione della rete occorre trovare il giusto mix tra online e offline.
    Per assurdo concettualmente il giovane bravo giornalista potrebbe guadagnare di più diventando più imprenditoriale.
    Servizi in abbonamento con Pay per view (c’è da risolvere l’annoso problema dei pagamenti on line lo so) dove l’editore è quello che fornisce l’infrastruttura e i free lance i contenuti.
    E i migliori trasferiti su carta tipo “best of the week” per i nostalgici che vogliono la rivista (vedi internazionale per intenderci).
    Il vero grande problema è se la nostra società dove comandano spesso dei vecchi è pronta a cambiare modello di business.
    Gente che negli ultimi anni ha pensato di poter guadagnare vendendo i giornali come allegati di gadget.
    E cosa farne della enorme capacità di stampa che abbiamo sviluppato con enormi investimenti.
    I tempi a mio parere sono più lunghi di quanto immaginiamo noi che viviamo intensamente la rete, ma come sempre accade il primo che arriva mangia il grosso delle torta.
    Se l’editoria sparisce in buona parte trasferendosi on line e mi offre un credibile servizio in abbonamento per il quale sviluppa la mitica aggregazione dei miei interessi di nicchia mischiando professionisti e non (e se i non professionisti diventano molto letti li assumo) non è un business credibile?
    Per me si.
    A patto che si cambi mentalità, si diventi tutti più imprenditoriali (giornalisti compresi che magari dovranno rinunciare al posto fisso) e si accetti più rischio.
    Ma non diciamo sempre di migliorare la selezione della meritocrazia?
    Ma il costo dell’infrastruttura secondo me è infinitamente minore (anche nel senso ambientale) del costo del sistema di distribuzione.
    Quindi se un giornale costa 1 euro, mentre l’abbonamento costa 30/50 centesimi non sta in piedi? Anzi magari i giornalisti più letti guadagnerebbero di più.
    In fondo oggi c’è una montagna di gente che paga più di un euro al giorno per vedere la TV.
    E poi, insomma, se la gente paga per le canzoncine del gattino come suoneria!
    Un po’ di orgoglio di chi fa il vostro mestiere perbacco.

  • Caro Luca, grazie, sei stato ancora molto lucido e interessante. Al riguardo, ti segnalo anche questo e questo.

  • Caro Luca,
    intanto grazie di continuare gli approfondimenti su una materia che riguarda non solo il mondo della comunicazione, ma buona parte della società civile.
    Sul fatto che nella comunicazione occorra “qualcosa di nuovo”, mi pare, siamo tutti d’accordo – così come nell’affrontare questo grande e forse creativo disordine bandendo tanto conservatorismi fuori tempo massimo quanto ingenui e puerili entusiasmi.
    Personalmente, tuttavia, mi trovo immerso sia nei primi sia nei secondi: se qui in redazione vado alla macchinetta del caffè con i colleghi meno giovani mi tocca ascoltare lacrimose giaculatorie sul tramonto dei giornali; se poi con il caffè ancora caldo accendo il computer e vado in Rete, m’imbatto in post e commenti esaltati per il radioso futuro di una comunicazione senza editori, in cui è tutto un meraviglioso e libero scambio tra liberi informatori senza padroni.
    Le due sciocchezze vanno di pari passo, e per questo ho cercato di porre con forza la questione del futuro della comunicazione professionale, in cui un editore investe (sperando in un feed back anche economico) nella qualità dell’informazione.
    Non c’è bisogno di mettere in mezzo Internet, per capire quanto la questione sia urgente: basta vedere il fenomeno della free press, in cui l’abbassamento della qualità è stato una conseguenza diretta del calo degli investimenti.
    Tu scrivi che «non c’è una correlazione forte tra la quantità di soldi che gli editori guadagnano e la qualità del loro giornalismo». Io la direi diversamente: e cioè direi che per la qualità della comunicazione (approfondimento, inchieste, minore ricattabilità etc) la buona salute economica dell’editore è una condizione sicuramente non sufficiente ma assolutamente necessaria.
    A me piacciono molto il citizen journaism, i blog, quelli che con Twitter o una videcamerina ti fanno giornalismo in diretta e dal basso. Ma mi piace ancora di più quando questi nuovi strumenti vanno a pluralizzare e ad arricchire un’offerta informativa in cui ci sono degli editori che investono tempo e denaro per mandare un giornalista un mese tra i raccoglitori di pomodori o per lasciare che un inviato di economia stia dietro sei settimane ai conti su banche estere di un politico – due esempi tra i tanti, naturalmente.
    Non so se il “giornalista imprenditore”, il blog di successo, micropagamento e altre formule saranno utili a questa integrazione. Mi pare però che in questa fase – in cui la recessione mondiale si è assommata ai problemi strutturali dell’imprenditoria della comunicazione – gli editori siano più concentrati nei tagli (inevitabili, peraltro) che nelle strategie per cercare nuovi modelli di ricavo.
    Tu scrivi che «se la società ha bisogno di persone che, accanto ai volontari dell’informazione, si dedichino a fare informazione professionalmente con un metodo empirico e trasparente, probabilmente troverà il modo di pagarle». Io spero che tu abbia ragione. I segnali che tuttavia ci manda questa società in merito non mi paiono propriamente incoraggianti.
    Sbaglio?

  • Alessandro, concedimi una battuta.
    Contro la mia categoria.
    Troppi oggi (non solo nei giornali) pensano solo a tagli e non al futuro.
    Ma è tipico italiano far tanta tattica e poca strategia.
    Purtroppo.

  • La nouvelle webvague, soprattutto quella mediasociale, non può che fare bene a grandi e piccini, giovani e navigati – soprattutto nel senso internautico del termine -.
    Io personalmente ci auguro che succeda lo stesso anche nel mondo della ricerca universitaria, della politica e dell’economia.
    Perchè la crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo è innanzitutto l’effetto del mancato adempimento ad un ‘compito di sviluppo’ identitario e collettivo. In omaggio a Darwin parlerei di una esigenza di ri-(e)voluzione non più rinviabile.
    Grazie per le tue interpretazioni.
    Aldo

  • Grazie a De Biase e a Gilioli per le loro riflessioni, di grande profondità e interesse.
    Parte di esse, riguardando la crisi dei giornali, investe uno degli elementi chiave, ossia la pubblicità. Mi chiedo (qui in modo più ampio: http://unuovordine.blogspot.com/2009/03/la-crisi-dei-giornali-e-la-pubblicita.html) e vi chiedo: non è una pubblicità ridimensionata come quella sul web la più adeguata rispetto al modello economico che sembra ineluttabile dover acquisire nel futuro prossimo?
    O meglio: l’ipervalutazione della pubblicità sui media tradizionali non è uno specchio (deformante) dell’ipertrofia di un’economia che non regge più sotto il profilo finanziario ed ecologico? Non è la pubblicità il veicolo responsabile per primo dell’obesità dei bisogni indotti nei consumatori?
    E non è quindi un bene che, tramite il web, subisca un ridimensionamento netto del suo valore e della sua influenza sociale?

  • Ciao Luca, credo che il punto sia la disgregazione dei container (i giornali) non delle notizie. In altre parole: c’è spazio sì per un giornalismo di qualità (anche se occorrerebbe accordarsi su una definizione dello stesso. Vogliamo parlare dell’appoggio dei quotidiani USA alla guerra di Bush Jr.?), ma forse non per tutto l’overhead che ci abbiamo stratificato intorno. Il che è un modo di dire: ora che la rete rende possibile pubblicare singoli lacerti di qualità, anche chi è interessato a tale qualità fatica forse a capire perché debba acquistare **tutto** il prodotto, che spesso è scoria a bassa o bassissima qualità, visto che come sai nessuno mette in edicola un prodotto **interamente** di qualità.
    E sebbene la pubblicità online cubi decimi dei fatturati tradizionali, e non il 10% come qualcuno ha scritto, credo che difficilmente ci sia spazio per modelli pay

  • Un interessante articolo apparso su Punto Informatico, racconta di Lova Rakotomalala, un ragazzo originario del Madagascar, che vivendo negli Stati Uniti, ha sentito la necessità di approfondire quanto stava avvenendo nel sue paese. Ha iniziato a raccogliere e confrontare i contributi provenienti da Twitter e da diversi blogger che assistevano in prima persona al colpo di stato in corso. Ne è uscito fuori un vero e proprio reportage corredato di fotografie, video e anche qualche intervista, ottenuta grazie al servizio di microblogging, praticamente in tempo reale.
    http://pennedigitali.libero.it/2009/microblogging-e-nuovo-giornalismo-dinchiesta/

  • Ciao Luca, il riferimento che fai a propublica e’ quanto mai adeguato, ma cominciamo a fornirci alcune risposte, perché’ non c’è un analogo caso in italia? Solo perché non abbiamo una fondazione sandler o perché mancano i giornalisti che vogliano davvero tornare a fare investigazione? Mancano i contenitori o i contenuti?

  • Bah, a me pare ovvia una cosa: se non lo fanno i giornalisti lo farà qualcun’altro. Le notizie saranno fornite da chi ha interesse a fornirle: governi, partiti, chiese, organi di sicurezza, aziende, agenzie di pr etc etc.
    Si salterà il passaggio intermedio che a questo punto diventa un puro costo e non ci sarà più il pericolo (sempre più raro, in effetti) che un giornale o un giornalista intrometta un punto di vista o un fatto ‘sbagliati’.
    E il ‘popolo del web’ esulterà di poter esperire la ‘realtà’ direttamente, per la prima volta nella storia dell’umanità…

  • Sasha, credo che però non abbia nemmeno provato a immaginare la bolgia che ne verrebbe fuori senza “mediazione”. Secondo te, in pratica, potremmo passare 25 ore su 24 a raccattare in giro, tra mille e mille soggetti attivi (e, a un tempo, “produttori” della notizia), le notizie come se non avessimo altro da fare! Il medium ci sarà sempre, ed è necessario. Se vuoi, De Biase è un “media, il Corriere è un “media”, Beppe Grillo è un “media”, il tg4 è un “media”… Nello scenario che prospetti, tutti diventerebbero attivi (anche la mia vicina di casa; dico senza sminuirla in nulla, per carità). Io avrei interesse a sapere cosa dice la mia vicina di casa del suo “corso di cucina”, ad esempio; avrei però interessa a sapere anche cosa dice De Biase riguardo al corso di cucina della mia vicina di casa. Prendi questa prospettiva e moltiplicala per mille (tanti quanti sonoi fatti “importanti” che dovrai o vorrai seguire). Ne usciresti confuso? Ne usciresti confuso.

  • Guardi che stavo esattamente facendo dell’ironia sull’entusiasmo del ‘popolo del web’ e dei suoi ‘guru’ per la disintermediazione, cioè la scomparsa dei vecchi media…
    I poveretti insistono a considerarla come la scomparsa di un diaframma che impedisce di vedere la realtà mentre invece si tratta, appunto, di uno strumento per percepirla, questa realtà… una specie di misticismo low cost da parte di persone per cui il futuro è un pianeta di gente che sta seduta davanti a uno schermo e pensa di essere tanto più cool di quei miliardi di poveracci che non sapevano niente nei millenni passati…
    Comunque me l’ero data da tempo che l’ironia in Rete non arriva senza le faccine (come pure in televisione: l’ironia è roba da carta stampata…)

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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