Oggi all’Open, Milano, si parla di Visioni digitali, il libro di Simone Arcagni che ripercorre in modo colto e problematico la letteratura e la casistica del fenomeno digitale che attraverso una riorganizzazione mediatica radicale, ridefinisce l’ambiente nel quale vive l’umanità e i suoi problemi identitari.
Il problema non è più quello di capire come cambiano i media tradizionali. Quelli sono già cambiati. Non è il futuro, l’infosfera, ma il presente nel quale si costruisce il futuro. Il problema è come come cambia l’ambiente e come cambiano gli umani.
Per questo le digital humanities, a loro volta, cambiano. Non più l’applicazione delle tecnologie digitali alla ricerca umanistica che in origine ha caratterizzato questa disciplina. Ma l’indagine della dimensione umanistica che si trasforma nel contesto dell’infosfera. Con il problema della ricerca di nuovi equilibri: in nome di un’ecologia dei media.
Per essere non basta sapere come essere. Ma di certo il “come” non è neutro. L’indagine sulla trasformazione dell’umano nell’infosfera non si può concentrare sulla preoccupazione di ciò che si perde: piuttosto si confronta con ciò che si può trovare. Come suggerisce Maurizio Ferraris non si tratta di discutere di una umanità alienata dalle macchine, perché l’umano nasce dipendente. La libertà non è lo stato originario, ma la conquista che avviene per via di ricerca, esperienza e conoscenza.
È questo il senso del corso Media Ecology che tengo alla Bocconi a partire dal lunedì 8 febbraio. C’è ancora tempo per iscriversi.
Vedi anche:
Digital Humanities, Bocconi e Bruxelles
«Schiavi del digitale». Maurizio Ferraris racconta com’è andata veramente
La bicicletta del cervello
Ritengo che non ci si debba interrogare troppo sul dove si va o come si va. L’ambiente muta in relazione a elementi non solo legati al progresso, ma anche alla sensibilità. Qualche visionario ha anche teorizzato fenomeni di rigetto da questa deriva iper tecnologica e un rigetto verso l’informazione. Personalmente ritengo che, informazione, arte e creazione siano sempre più sottoposte a una commistione generale (o confusione?) che appiattiscono la conoscenza e la rendono schiava della memoria (si proprio la memoria come quella dei computer). L’esercizio della memoria diviene sempre meno performante e l’originalità ha una vita sempre più ridotta. Credo che nel futuro ricorderanno più le APP che chi le ha create, più i momenti digitali che i momenti storici. Siamo destinati a essere mutanti anche nel codice (delirio?).
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