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Scuola: generatore di futuro. Conversazioni in rete

Le riflessioni intorno alla trasformazione della scuola che i commentatori a un precedente post hanno avviato sono molto importanti. E’ urgente proseguire.

Vale la pena di farlo perché si ha l’impressione che mentre le riforme decise dall’alto procedono secondo logiche vagamente insondabili, il cambiamento viene realizzato dalle iniziative e dai pensieri di chi svolge con competenza e passione le sue funzioni sul campo. Qualunque futuro nasce a scuola: che sia un futuro migliore o peggiore. La voce di chi realizza i suoi progetti è la meno ascoltata ma la più significativa. I segnali emersi dalle reazioni di chi è intervenuto sono relativi a visioni, iniziative, startup.

Leggendo quello che scrive Roberto Maragliano ci si accorge che l’organizzazione tradizionale della scuola è rimescolata profondamente. L’immersione della scuola nella nuova mediasfera ne cambia il senso, senza però riuscire a cambiarne abbastanza velocemente la struttura operativa. E poiché la nuova mediasfera racconta la contemporaneità, la scuola perde il suo contatto funzionale tradizionale con la società, faticando però a costruirsene uno nuovo.

Evidentemente occorre un ripensamento. Uno dei fili di pensiero è legato alla ristrutturazione delle piattaforme suggerita dalle tecnologie digitali. Ma non è la tecnologia a risolvere. E’ chiaro che si parte dal progetto. E dunque dallo scopo che si persegue. Lo sottolinea anche Gianni Marconato. E’ chiaro che la scuola si inserisce in una dimensione più ampia, non coincide con la formazione (come dice Alessandra), ma svolge funzioni diverse, dalla socializzazione all’educazione. Ha un ruolo formale e istituzionale oltre che informale ed esperienziale.

Di certo è legata all’apprendimento. Ma da questo punto di vista va riconosciuta e rivalutata. Perché il suo valore si riconosce dai risultati: ascensore sociale, contrasto al learning divide (collegato al digital divide come osserva Virginia Fiume), valorizzazione dei talenti, addestramento a operare con gli strumenti di lavoro o per hobby, felicità di comprendere, e così via.

Se il progetto si sincronizza sul linguaggio contemporaneo non può che aprirsi al digitale. E le esperienze segnalate sono molte. Vale la pena di rivederle nei commenti citati al post precedente.

Il Mooc di Stanford segnalato da Fiorella. Il Wiildos citato da Frieda Brioschi. Le iniziative di Garamond raccontate da Agostino Quadrino. La Lim interpretata da Mariangela Galatea Vaglio. Cl@ssi 2.0 di Roberto Castaldo. LuciaBracci dice Docebo, Mirko Morini dice Kunerango. Marco Favero dice anche: Aututor, Moodle, Edutools, Elene-tt.

In realtà, la piattaforma totale non può esistere. Esiste il web, dice Roberto Polillo.

E Marco Fabbri segnala due articoli che dimostrano come alla fine quello che conta sono le persone. Verità fondamentale alla quale occorre tornare anche se convince troppo facilmente. E indirizza verso il tema della formazione dei formatori. Che probabilmente a sua volta non è più pensata in modo tradizionale, ma attraverso l’esperienza di coltivare una visione, una progettazione, una verifica empirica e una riflessione sui feedback. Anche gli insegnanti entrano nell’era dell’innovazione da praticare e non più da subire.

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  • Quando ormai diversi anni fa, sollecitati dall’allora rettore della Federico II, abbiamo iniziato ad affrontare la questione a partire da un’estesa e approfondita analisi su modelli, esperienze e piattaforme utilizzate per l’elearning in Italia e all’estero, comprendemmo subito che la scelta della piattaforma era un falso problema. Che nessuna features tecnologica era in grado di assolvere allo scopo in maniera più efficace di un’altra. A quel tempo correva l’obbligo di adattare la conoscenza in termini di learning objects agli standard Scorm se si voleva essere compliant con le piattaforme in uso. Nessuno di noi del team di Federica.unina.it era un informatico, eravamo stati scelti apposta per evitare di pensare in maniera meccanica, per evitare di innamorarci di questa o quella feature. Fu così facile liberarsi dell’idea di piattaforma e loro caratteristiche ed anche degli standard, e iniziare a capovolgere il punto di vista. Approccio di piccoli passi, approccio cosiddetto “agile”, per affrontare problemi concreti a partire dalla consapevolezza che gli stili di consumo culturale e mediale sono molto cambiati, come sono cambiate le abitudini di lettura, la ricerca di un’ottimizzazione di tempi ed energie. Avremmo potuto sperimentare tante altre opportunità come ad esempio l’interattività, la cui assenza ci è sempre stata rimproverata, con il rischio però di minare pesantemente la sostenibilità del progetto: 16000 accessi unici al giorno sono tanti e se anche solo 1% degli utenti avesse voluto porre una domanda o una richiesta di integrazione è chiaro che l’assetto del progetto avrebbe dovuto essere radicalmente cambiato. Invece, abbiamo imparato e sperimentato tanto muovendoci di volta in volta per inseguire le esigenze degli studenti, talvolta spingendoci anche oltre lo steccato. Come è successo con il progetto youlaurea.it , pensato per dare un aiuto gratuito agli studenti nella scelta del corso di laurea. Oggi stiamo passando ad analizzare al microscopio il panorama editoriale italiano, perché sappiamo che dalle università e dal mondo dell’editoria nasceranno i progetti digitali più coraggiosi. I primi passi per l’editoria accademica si stanno iniziando a muovere, uno di cui sono venuta recentemente a conoscenza è pandoracampus.it . Certo pur sempre iniziative riservate ma almeno fino a quando gli editori non troveranno un valido strumento di business davvero credo non possa essere chiesto loro di più. Poco fa mi è caduto l’occhio sul titolo di un libro di Clayton M. Christensen (The Innovator’s Dilemma: When New Technologies Cause Great Firms to Fail) che dice tutto. Tocca alle università e alle scuole innovare, sperimentare, proporre nuovi modelli senza innamoramenti verso ciò che appare appena un po’ più lucido: ieri era la didattica a distanza, oggi sono i Mooc, ieri si applaudiva all’insegnamento personalizzato oggi si applaude all’insegnamento di massa, ieri si accusavano gli stati uniti di imperialismo culturale, oggi quel modello viene applaudito. Occorre tornare al senso, ponendoci domande ampie, come il destino della cultura, delle università, come il titolo del post di De Biase. Scusatemi per il lungo post

  • Open Culture segue da vicino l’evoluzione dei MOOC. Ho appena letto questo post, che mi sembra interessante per le prospettive (problematiche) dello strumento
    http://www.openculture.com/2013/04/the_big_problem_for_moocs_visualized.html
    Per quanto mi riguarda, ho seguito e completato un corso nel 2012 (Networked Life, University of Pennsylvania, docente Michael Kearns) e ho appena iniziato il secondo (A Beginner’s Guide to Irrational Behavior , Duke University, docente Dan Ariely). Sono contentissima di entrambi, sia per lo ***straordinario*** livello dei docenti, sia per il modello organizzativo. Il corso della Duke è addirittura sconcertante, non oso pensare quanto tempo – e quante risorse! – sia costato organizzarlo in quel modo.
    Sono d’accordissimo con l’articolo: “Right now, universities are producing MOOCs left and right, and it’s great deal for you, the students.”

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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