Jim Spanfeller, di Forbes, aveva detto che Google è un parassita dell’industria dell’informazione perché guadagna utilizzando le notizie prodotte dai giornali tradizionali.
Risponde Marissa Mayer, di Google, per dire che il motore di ricerca aggiunge valore ai siti dei giornali perché porta a loro milioni e milioni di lettori.
Un paradosso sensa uscita? No.
In realtà, Spanfeller ammette che Google porta lettori, ma segnala che da questa attività il motore di ricerca trae un guadagno sproporzionato rispetto al valore generato. E da qui si trova la chiave per uscire dal paradosso.
Perché il problema è che Google produce valore e lo monetizza utilizzando un sistema di raccolta pubblicitaria innovativo, molto adatto a internet, relativamente più concorrenziale di quello tradizionale. I giornali invece di solito utilizzano un metodo di raccolta pubblicitaria più simile a quello tradizionale che è nato per un mondo senza internet. Il problema degli editori è riformare il loro metodo di raccolta pubblicitaria per far valere il valore vero del loro contenuto. Le inserzioni che appaiono nei giornali vanno contestualizzate meglio, il costo di raccoglierle deve scendere o la loro qualità creativa, una quota di valore inferiore deve andare agli intermediari, un maggior numero di potenziali inserzionisti deve essere contattato e convinto a investire. Se gli editori faranno una di queste cose potranno aumentare il loro fatturato online. Sapendo, naturalmente, che il valore sarà prima di tutto definito dal prestigio e dall’affidabilità delle loro pagine di informazione.
A quel punto competeranno anche con Google, sottraendo al motore di ricerca una quota delle inserzioni pubblicitarie che per ora raccoglie. Imho.
Vero fino a un certo punto. Tieni conto che l’advertising contestuale (o a performance) ha valori molto diversi in funzione del contenuto della pagina in cui si trova. Questo significa che se parlo elettronica di consumo o viaggi posso ospitare annunci di alto valore unitario, ma se parlo di politica, esteri, cronaca (ossia la maggior parte dei contenuti di un quotidiano) finisco per ospitare annunci dal bassissimo valore unitario.
Inoltre, ci sono tutta una serie di prodotti che si prestano assai male all’advertising online: parlo di tutte le commodity, dalla pasta ai biscotti ai detersivi ai pannolini. Sono aziende che investono enormi quantità di denaro in advertising per convincere la gente che la propria commodity è migliore di quella del concorrente. Perché mai l’utente dovrebbe cliccare sul banner (contestuale o meno) di uno yogurt o di un bucatino?
Credo anch’io che la pubblicità contestuale non sia applicabile a molti prodotti, in particolare a quelli di commodity.
Ma anche considerando prodotti più idonei alla pubblicità in Rete, una strategia orientata a un target ben preciso assume valore economico quando è possibile rivolgersi a tante nicchie diverse.
E a parer mio, mentre google grazie al servizio che offre è in grado di sfruttare pienamente questa miriade di mercati, forse non si può dire altrettanto dei giornali online.
Con uno slogan, google ha seguito nei dettagli la legge di Metcalfe, i giornali hanno perso il treno della Coda lunga. Hanno voluto giocare fino al xisec.com la legge meno conosciuta, quella di Sarnoff,nata sotto l’imprinting della reti diffusive nel XX sec. Moore l’hanno visto in ritardo e per timide innovazioni di processo, per risparmiare meglio dire, credendo all’assunto dei costi marginali zero a contenuto invariato. Per finire con le leggi generali, quella di Reda David Red (scienziato di punta della Lotus Corporation e nel Media Lab del Mit sostenitore dell’open spectrum, anche ideatore dell’end-to-end di internet per non fargli torto)non solo è arrivata a malapena nei piani alti delle strategie ma è stata considerata un fenomeno di curiosità. Quale? Se i giornali si fossero aperti al dialogo, capitalizzando la formazione di gruppi che adiuvavano loro stessi a creare, avrebbero potuto esser monetizzati anche con lo stesso sistema attuale a click performance. Ora è tardi per cambiare sistema revenue sharing nella catena pubblicitaria. Poi a dirla tutta, basta vedere dall’altra sponda dell’atlantico per capire che Google non solo non controlla le informazioni, http://fr.techcrunch.com/2009/04/12/google-controle-t-il-vraiment-linformation/
ma non può di sicuro creare un modello di remunerazione che privilegi gli editori, piuttosto che gli inserzionisti che lo paga. Se come sembra, il 30% dei contatti sono attraverso il motore di ricerca, ho aumentano il proprio bacino di contatti diretti o creano delle concessionarie più efficienti. Questi però sono investimenti ora, che si sarebbero potuti almeno alleggerire se erano stati impostati prima e soprattuto nella variabile content king. Ovvero senza credere di mantenere il monopolio della qualità.
ma che battaglia vuole fare la carta col web?più passa il tempo, più il web ingloberà tutto..
Questo è un tipico caso di (fallita) disintermediazione che dovevamo avere dalla nascita del web in poi. Google si è guadagnata un enorme potere linkando le News. C’è sempre la possibilità per gli editori di autoescludersi, ma per ora preferiscono essere rintracciati andando a competere -in decina di migliaia- per un link sul più grande motore di ricerca.
E’ certamente una posizione condivisibile: è troppo debole la loro forza rispetto allo strapotere della big G. Prendono troppo poco traffico per garantirsi la sopravvivenza ma sparirebbero se uscissero dal giro. Comunque concordo, devono decidere tra una morte lenta e una immediata. Bell’impasse. Ma l’attuale modello di business è questo. C’è un’unica uscita: innovare immediatamente con un servizio di qualità.
Effettivamente si potrebbe essere daccordo con entrambe le opinioni, però resta il fatto che altri portali di ricerca hanno la loro redazione, secondo me Google dovrebbe tenere conto di questa cosa.