Una ricerca Atlas pubblicata anche da QZ mostra come si comportano gli utenti di Facebook con i post che riguardano le opinioni politiche di chi li scrive.
In pratica, solo una incredibilmente piccola minoranza dice che ha cambiato idea su un argomento politico dopo aver letto un post su Facebook (15% di indipendenti, 8% di democratici, 6% di repubblicani). Queste percentuali si spiegano soltanto in due modi:
1. Su Facebook non si trovano notizie e argomentazioni che illuminano un tema che si conosce poco
2. Su Facebook non si cercano notizie e argomentazioni che illuminano un tema che si conosce poco (e quello che non si cerca non si trova)
Con tutto quello che la gente pubblica su Facebook è improbabile che non venga fuori almeno qualcosa di illuminante, per qualità informativa od originalità interpretativa. Dunque ne emergono un paio di ipotesi:
a. Su Facebook si va per trovare persone simili, che si gratificano reciprocamente con i “like” e con opinioni che si avvalorano a vicenda
b. Un’informazione inattesa, sorprendente, che fa cambiare idea, è anche probabilmente una informazione che esce dal pattern della gratificazione reciproca ed entra nel modello di comportamento della riflessione; può venire da persone che l’algoritmo non mette in primo piano perché non sono state connesse in passato con un like; può venire da persone che svelano opinioni o posizioni inattese e non necessariamente gratificanti e alle quali in quel caso di può addirittura negare l’amicizia (in effetti, secondo la ricerca il 18% dei democratici, il 12% dei repubblicani e il 9% degli indipendenti ha negato l’amicizia a qualcuno dopo aver letto le sue opinioni politiche: per gli schierati queste percentuali sono superiori a quelle di chi ha cambiato idea su un argomento politico per aver letto qualcosa su Facebook)
c. Non ci si aspetta di trovare su Facebook qualcosa di autentico, valido e sorprendente sulla politica, ci si aspettano gratificazioni, sicché per non rischiare di fare arrabbiare qualcuno si può addirittura preferire che su Facebook ci si astenga dal parlare di politica (il 36% dei repubblicani, il 31% dei democratici e il 21% degli indipendenti pensano che Facebook non sia un luogo appropriato per parlare di politica)
d. Poiché lo scopo di stare su Facebook non è parlare di politica o trovare notizie inattese, ma essere gratificati da persone simili, che hanno qualcosa di curioso o divertente o pratico da comunicare senza troppo impegno, si tende a giudicare gli altri per quello che dicono sulle proprie opinioni politiche e il rischio di essere giudicati male induce a evitare di mettere su Facebook cose che escono dall’ovvio o dal mainstream del proprio entourage. Questo riduce il numero di cose interessanti, sorprendenti e dunque potenzialmente illuminanti che si scrivono su Facebook (il 61% dei repubblicani, il 53% dei democratici e il 34% degli indipendenti giudicano gli altri in base a quello che scrivono di politica e, come si è visto, in due terzi dei casi negano l’amicizia in base a quel giudizio: il rischio è alto, di conseguenza meglio non scrivere di politica…)
Conseguenza. Dati questi fatti e queste ipotesi: l’unico senso che ha parlare di politica su Facebook è quello di rinsaldare i legami con persone che si sa esattamente come la pensano dicendo loro quello che già sanno e già pensano.
Forse, tutto questo, avviene anche fuori da Facebook. La tribalizzazione della società corrisponde a tutto questo, probabilmente. Può essere un’eredità della divisione in target operata dal marketing televisivo-politico dei vent’anni passati. Che Facebook non è fatta per correggere.
Ma poiché, piaccia o no, occorrono dei luoghi dove informarsi in modo metodologicamente corretto, sorprendersi per notizie od opinioni inattese e scritte in modo che se ne riconosca l’importanza, impegnarsi a migliorare e andare oltre quello che già si sa e si pensa, allora c’è spazio per costruire media civici.
Facebook è utile. Ma non è la fine della storia. Forse i giornali comprenderanno di poter essere la prossima grande piattaforma? Forse ci vorranno altri che lo capiscono e si impegnano a farla? Forse verrà da un insieme di esperienze culturali profonde – università, biblioteche, archivi, giornali orientati al pubblico e non alla pubblicità? Forse sarà frutto di innovazione sociale? Da qualche parte qualcuno sta lavorando su questa nuova piattaforma che serva a connettere persone che non necessariamente si piacciono ma hanno qualcosa in comune da fare o da decidere o almeno da comprendere.
C’è anche da dire, per finire, che la politica è diventata una faccenda tanto controversa e potenzialmente “sporca” che nessuno che se ne occupi riesce a stare alla larga dalle potenziali litigate. Forse anche questo spiega le notizie riportate sopra. Può essere che su altri argomenti meno controversi l’effetto culturale di Facebook sia più profondo, aperto e costruttivo.
Vedi (una ricerca segnalata dai commentatori via Twitter)
Echo Chambers on Facebook
[…] Vedi anche: Che senso ha parlare di politica su Facebook […]
Se si legge il pezzo linkato su QZ, tuttavia, risulta chiaro come i dati alla base della ricerca sono nel migliore dei casi dubbi, nel peggiore inventati (“In retrospect, we should not have published it”, dicono). All’origine della ricerca c’è una agenzia di marketing di dubbia serietà, Rantic (https://www.crunchbase.com/organization/rantic#/entity ).