Non c’è dubbio che si è fatta una tale “caciara” sulla “app economy” che per un po’ di tempo le persone di buon senso hanno pensato di snobbarla. Ci sono stati troppi ideologi della banalità secondo la quale il “combinato disposto” app-startup-incubatori-comunicatori-americanofili poteva risolvere ogni problema e rinnovare tutto in fretta. I sostenitori seri dell’innovazione digitale non ci hanno mai creduto. Ma i venditori di fumo hanno sballato tanto le coscienze per qualche anno da fare superare il livello di tolleranza a chi lavora davvero. Sicché, per fare bella figura, sempre più persone dicevano cose tipo: “questa è una startup vera, non una di quelle che fanno le app”. Ebbene: è venuto il momento di superare anche questa fase e rivalutare la app economy. Perché se è vero che ce ne sono troppe di app, se è vero che l’app-economy non può minimamente essere confusa con il grande tema dell’innovazione dell’economia, è anche vero che per fare una app di valore ci vuole gente di valore. E lavoro serio.
Il libro di Matteo Sarzana, AppEconomy (Egea-TagBooks), è un ottimo punto di partenza per ricominciare a parlare di app in modo rispettoso. Tutta la parte che riguarda la progettazione, la costruzione del servizio, la tecnologia, il team, la cura del cliente è precisa, profonda, chiara e convincente. Non si scherza: ci vuole lavoro e attenzione. Sarzana ne sa qualcosa visto che in Italia guida Deliveroo. Si tratta di innovazione seria, che non si mette insieme con un colpetto di software. L’intuizione secondo la quale il grande valore delle app ben riuscite – e ovviamente del servizio che offrono – è quello di fare risparmiare tempo alle persone è una ottima idea.
Casomai il libro è troppo ottimista sul lato “gig” della questione: l’occupazione alimentata da molti servizi di questo genere è fatta di “lavoretti” on-demand che possono andar bene per qualcuno e per qualche tempo. La gig-economy è certamente una soluzione in più, ma sembra anche preoccupare chi la vede come una minaccia. Non è insensato: sarebbe spaventoso se diventasse la regola per troppe persone e per troppo tempo. Il fatto che ci sia chi la considera criticamente merita attenzione. Perché se è vero che un eccesso di regolamentazione frena l’innovazione, è anche vero che un eccesso di deregolamentazione genera una domanda di protezione dei diritti dei deboli che alla fine si traduce in riregolamentazione. Certo, nessuno sano di mente pensa che la gig-economy debba o possa diventare maggioritaria: non ha senso portare alle estreme conseguenze un insieme di soluzioni adatte a un numero limitato di tematiche. Ma è anche chiaro che gli equilibri si formano nel tempo attraverso un processo di tentativi ed errori e aggiustamenti. Meglio guardare a tutto questo con attenzione e rispetto, dunque, senza preconcetti.
Anche molti servizi di innovazione sociale, civica, culturale, probabilmente, passeranno da queste parti.
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