Lev Tolstoj maestro di non violenza di Gandhi. Lev Tolstoj corrispondente scettico del pacifismo milanese. Lev Tolstoj figura attraente e nello stesso tempo critica per le società teosofiche. Leg Tolstoj ispirazione indistruttibile al confine tra la letteratura e la filosofia. Esploratore dell’arte e della ricerca, ma soprattutto autore della propria vita.
Ieri Roberto Coaloa ha raccolto un cenacolo di studiosi e artisti tolstojani a Milano e il risultato è stato vagamente magico. Coaloa ha appena pubblicato con Feltrinelli un saggio di Tolstoj sostanzialmente inedito intitolato Guerra e rivoluzione. Testo da non perdere se si coltiva la speranza di poter contribuire a migliorare la vita delle persone e del pianeta per via non violenta. Il cambiamento necessario per l’umanità e per le persone è culturale: è la presa di coscienza. È la consapevolezza dell’inutilità dei governi, il rigetto della violenza, l’adesione pragmatica alla legge dell’amore universale. La distanza tra ricchi e poveri è un’incessante motivo di violenza e di menzogna. E per cambiare prima di tutto occorre vedere come farlo. Il racconto della pacificazione umana, in Tolstoj, si accompagna alla sperimentazione delle soluzioni operative per realizzarlo.
Bruno Milone nel suo Tolstoj e il rifiuto della violenza aveva raccontato come questo pensiero nello scrittore non fosse frutto di una conversione avvenuta a 55 anni di età ma fosse un’elaborazione di ciò che già Tolstoj scriveva e sapeva in precedenza. Il cambiamento della vita di Tolstoj non è una nuova idea ma il passaggio alla realizzazione dell’idea. E la sua influenza fu enorme.
In effetti, il centro dell’idea di Tolstoj è già nell’ultimo capitolo di “Guerra e pace” dove l’Autore si domanda se sia stata davvero la libertà di scelta esercitata da Napoleone a condurre la Francia ad attaccare la Russia, o se non siano state altre e più complesse le cause di quella tragedia.
Dopo una lunga discussione in materia, Tolstoj decide: la libertà dell’individuo è un’illusione dovuta alla sua ignoranza delle leggi della storia. E questo in particolare è importante nell’analisi della politica degli stati. Il potere politico può essere violento e può causare enormi tragedie, ma non è un vero potere, perché non muove la storia. In questo senso Tolstoj è anarchico: non certo perché voglia abbattere il governo con le bombe, anzi, ma perché pensa che il governo non abbia vero potere. È un’anarchia analitica, filosofica, non un’anarchia combattente. L’unica azione sensata è la testimonianza dell’adesione alla legge universale dell’amore e la sua messa in pratica concreta.
Anche Fernand Braudel pensava che l’individuo fosse molto meno rilevante della struttura: la lunga durata nella storia mediterranea è molto più importante della biografia di Filippo II. E questo spiega la sua idea politica. A una domanda impertinente del suo studente sulle sue posizioni politiche, dopo molte riluttanze, rispondeva: «Sono anarchico gaullista». Un paradosso ovviamente. Ma sensato. Perché lo stato conta meno di quanto si ritenga comunemente, alla scala della grande storia, anche se un paese ha bisogno di un’identità e dunque di un suo sintetico narratore, quale appunto De Gaulle.
È un modo per sottolineare la necessità della ricerca come parte integrante della politica e dello sviluppo umano. Che Tolstoj descriveva così terminando Guerra e rivoluzione:
La vita ha precisamente come scopo di mostrare progressivamente agli uomini ciò che essi non conoscono ancora e di indicare a loro se la via che essi hanno seguito nel passato era buona o cattiva.
Schiacciati da un presente incombente, gli umani hanno bisogno di una prospettiva. Ma per costruirla senza illudersi hanno bisogno di avere consapevolezza di ciò che è importante e di ciò che lo è meno. Senza schematizzare e mantenendo il senso del paradosso di Braudel per “curare” ogni tensione ideologica, che negherebbe la qualità della ricerca, questa speciale anarchia analitica ha forse l’effetto di sottolineare l’importanza di ciò che ha lunga durata, della cultura della felicità, della possibile negazione della violenza. Per uno sviluppo che non è tale se non è prima di tutto culturale.
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