Metro-boulot, metro-dodo. Si diceva a Parigi per dire come la vita centrata sul lavoro nella grande capitale francese fosse ripetitiva e priva di divertimento. Si torna a parlarne, nel quadro del dibattito sullo stile di lavoro ad Amazon secondo il controverso ritratto del New York Times. Le compagnie internettizzate stanno creando un mondo di persone alienate che lavorano in modo parcellizzato e nevrotico?
Viene in mente un caso personale. Alle tre del pomeriggio, telefono a un albergo della città che sto raggiungendo in automobile, in Canada, per prenotare. La signora del call center mi fa un sacco di domande ovvie sul nome, cognome, carta di credito e così via, fino a quando mi chiede: «Pensa di arrivare prima di mezzogiorno?». Faccio notare che sono le tre del pomeriggio. Ma la signora mi risponde: «Lo devo chiedere: è la procedura».
La procedura. Il tema non parte dalle tecnologie. Parte da una filosofia di management. E da una sua precisa alleanza con gli incentivi messi in campo dalla finanza.
Il pezzo del New York Times è stato contestato da Jeff Bezos. È apparso al Guardian come il frutto di uno scontro di culture. Non cesserà di fare discutere, perché l’argomento è alimentato da una quantità di notizie.
Ma, come fa notare di passaggio l’Economist, il punto centrale è che, quando è uscito il pezzo del New York Times, il valore delle azioni di Amazon è cresciuto. Alla finanza piace un’azienda iperproceduralizza, che controlla minuziosamente la performance e premia chi fa numeri, cacciando senza pietà chi non raggiunge gli obiettivi.
L’articolo dell’Economist è magnifico. Osserva come ci sia una continuità tra il pensiero del management scientifico, il taylorismo e le forme di organizzazione del lavoro che sembrano emergere nelle grandi aziende fortemente digitalizzate.
Il management scientifico di Frederick Taylor si basava su tre indicazioni: «break complex jobs down into simple ones; measure everything that workers do; and link pay to performance, giving bonuses to high-achievers and sacking sluggards». La proceduralizzazione era dunque parte del suo pensiero, insieme, a un sofisticato sistema di misurazioni e incentivi. Con la tecnologia digitale, i cultori attuali del taylorismo possono misurare meglio e proceduralizzare di più, decidendo poi che genere di sistemi incentivanti adottare.
La sensibilità delle aziende è diversa. Richard Branson sembra puntare di più sulla responsabilizzazione dei collaboratori. Altri sono più orientati al controllo minuzioso del loro lavoro. Qualunque sia la verità sul caso dell’articolo del New York Times su Amazon, però, la realtà è che l’incentivo sistemico introdotto dalla finanza è pressante. E spinge a “oggettivizzare”, a trasformare in asset il più possibile dei valori dell’azienda, anche quelli immateriali e organizzativi, per motivarne il valore. Spinge a puntare sui brevetti più che sulla cultura aziendale. Spinge a credere nella procedura softwarizzata più che sulla collaborazione basata sulla prossimità informale. Tutto molto interessante, specialmente nel quadro complesso della globalizzazione. Ma nello stesso tempo mette in secondo piano gli aspetti umani che rendono divertente e creativo il lavoro.
Non stupisce che una finanza ormai molto algoritmica, privilegi la proceduralizzazione delle funzioni delle persone che lavorano. Se fosse vero, sarebbero i primi robot che producono autonomamente altri robot e prendono il controllo degli umani: ma per quanto verosimile, direi che non è ancora vero. Ma è una narrazione che, se adottata e ritenuta conveniente, produce scelte che l’avverano.
[…] Un punto di partenza può essere osservare che la narrazione iperfinanziaria conduce a incentivare ogni sviluppo che parcellizza il lavoro umano in piccoli compiti senza consapevolezza competa del progetto al quale si applicano. (Vedi: l’algoritmo del nuovo taylorismo). […]