Stefania Giannini, ieri, alla presentazione italiana di Horizon 2020, ha detto che il suo scopo è portare il Miur a pensare per il lungo termine. È un’affermazione di grande importanza: fondamentalmente generosa, visto che significa lavorare probabilmente anche per il prossimo ministro; particolarmente ambiziosa, visto che significa lavorare sulle strutture più importanti del sistema del quale, attualmente, ha la responsabilità.
Il Miur si occupa di scuola, università, ricerca e innovazione. Difficile pensare a qualcosa di più importante.
Pensare alla lunga durata significa pensare a questioni relative a questi argomenti:
1. Visione
2. Metodo
3. Metafora
4. Interfaccia
5. Infrastruttura
6. Macchina organizzativa
Faccio qualche esempio di che cosa significa pensare a questi argomenti di lunga durata. Sapendo quando poco io sia qualificato per parlarne. Sono condotto solo dalla passione per un’impostazione che finalmente si orienta alla strategia e alla lunga durata. Per condividere l’impressione della grandezza dell’argomento.
1. Visione
Il tema della visione è chiaramente legato all’idea di società e di cittadinanza che immaginiamo stia evolvendo nell’epoca contemporanea. Una bambina che si iscriva alla prima elementare quest’anno arriverà a lavorare, se tutto va bene e riceve un’educazione relativamente completa, nel 2032. Non abbiamo un’idea di che mondo del lavoro si troverà di fronte.
Sappiamo che non smetterà mai di imparare. Sappiamo che il valore che saprà generare dipenderà da quanto potrà trasformare quello che impara in qualcosa che esprime le sue fondamentali capacità. Sappiamo che non esiste una formula buona per tutti: sappiamo che dovrà avere basi di conoscenze, punti di riferimento, informazioni, atteggiamenti necessari a facilitarne l’adattamento al contesto in cui si troverà. E di certo dovremmo sapere di più.
La scuola serve a fare in modo che la società sia una società che impara e si adatta velocemente al cambiamento. Serve a fare in modo che gli individui che la compongano siano capaci di convivere in modo tale che la loro contribuzione personale possa essere valorizzata dall’insieme e nello stesso tempo possa contribuire a valorizzare l’insieme.
In effetti, non sappiamo molto. Salvo che quel poco che sappiamo ci dice che la scuola attuale non ha moltissimo a che fare con la visione di cui stiamo parlando. Quindi occorre una grandissima innovazione. Quindi occorre ricerca. Quindi occorre una relazione molto più profonda tra l’università e la scuola. E tra il mondo del lavoro e i sistemi di apprendimento. Formali e informali.
La relazione tra scuola, università, ricerca va innovata. Stiamo parlando di sistemi diversi ma connessi profondamente. Possono diventarlo se si pongono insieme a confronto con le grandi sfide della società. È un po’ il messaggio di Horizon 2020. C’è una saggezza nei principi del nuovo programma quadro dell’Unione Europea. Che va declinata e applicata. La leadership del sistema Miur ha la responsabilità di questa declinazione e applicazione. È una visione importante: ed è una visione urgente.
2. Metodo
L’approccio alla conoscenza che serve per ottenere una società che si adatta meglio al cambiamento, nel quale il contributo dei cittadini all’insieme è valorizzato e contemporaneamente valorizza il carattere della società, ha bisogno di un rapporto di rispetto nei confronti della conoscenza. E data la visione che si è appena accennata, questo significa che il metodo fondamentale dell’insegnamento può tendere ad assomigliare al metodo fondamentale della ricerca: teoria, ipotesi, verifica; rispetto dei fatti; accettazione dell’errore; sperimentazione; mutua condivizione delle esperienze; costruzione della nuova conoscenza e diffusione dei suoi risultati come precondizione della ulteriore costruzione di conoscenza; apertura dell’accesso alla ricerca e didattica dell’espasione della ricerca. Imparare a imparare.
Condivisione delle nozioni basilari insieme alle fonti inesauribili di ispirazione: i linguaggi, dalla letteratura alla matematica e all’informatica; i contesti, dalla storia alla geografia; le frontiere, dalla scienza all’arte; le pratiche, dall’economia alla cura del corpo e alla produzione di beni; le regole della convivenza civica; e così via. Nello stesso tempo la sperimentazione personale con le nozioni acquisite, per favorire l’espressione individuale, la capacità di confronto e discussione costruttiva, la prova e l’errore e il risultato positivo. E infine, l’esperienza che insegna in modo informale ma denso di significato, in relazione con i protagonisti della società, dell’economia, della cultura, per accedere alle dinamiche evolutive reali. E per restituire al sapere di chi vive nelle dimensioni attive della contemporaneità il valore di materia di apprendimento di pari dignità di quella che è canonicamente contenuta nei manuali.
3. Metafora
Per descrivere un insieme complesso e poterlo trattare in modo efficiente in rapporto ai suoi obiettivi, occorre una metafora. A che cosa assomiglia l’insieme di scuola, università e ricerca? Scuola, università, ricerca, intese come dimensioni diverse di un’unica filiera della conoscenza generativa, orientata alla crescita e all’accelerazione dell’adattamento della società alle sfide contemporanee, possono essere descritte con una metafora nuova? Una metafora che spieghi ciò che la visione cerca di dipingere e il metodo per raggiungerla? Il sistema della generazione e diffusione di conoscenza, per la crescita delle idee e la loro sperimentazione, insomma il sistema che chiamiamo educazione può essere raccontato con la metafora di un incubatore? Forse.
Se la scuola fosse un grande incubatore di soluzioni per la diffusione di nozioni fondamentali, di idee creative, di progetti culturali, di metodi innovativi per l’apprendimento e per la connessione della conoscenza con la società e l’economia, potrebbe presentarsi come un’organizzazione adatta a gestire il cambiamento invece che subirlo. Una metafora non è mai precisa, ovviamente. Ma può indirizzare l’attenzione verso pensieri costruttivi.
4. Interfaccia
L’interfaccia del sistema è un ambiente formato di scuole, sedi universitarie, centri di ricerca e internet. La dimensione digitale è parte integrante del sistema, che lo si voglia o no. I giovani vivono in un ambiente digitalizzato. Se la scuola vuole restarne fuori si taglia le gambe da sola.
Per riprogettare un’organizzazione si può partire dal sistema produttivo o dallo scopo che si vuole raggiungere.
Pensare l’interfaccia significa partire dall’obiettivo. E l’obiettivo è servire al meglio la società e coloro che devono apprendere.
Allora l’interfaccia deve creare una considizione in cui sia facile usare la scuola, l’università e la ricerca. Venga voglia di farlo. Sia piacevole e interessante, mentre allo stesso tempo è importante. Riprogettare la scuola a partire dall’interfaccia non è incoerente con l’idea della scuola incubatore: perché sappiamo che quello che conta è la didattica e ciò che viene insegnato, il modo e la passione che gli insegnanti adottano per insegnare. Questo è ciò che conta. Un’interfaccia che valorizzi questi insegnanti e il loro rapporto con i discenti rende i loro sforzi ancora più importanti.
5. Infrastruttura
La rete di relazioni tra gli studenti, gli insegnanti, i ricercatori, le aziende e le organizzazioni sociali è un’infrastruttura che va pensata. Perché potenzialmente è il più grande laboratorio di apprendimento del paese, con tutta la gente che coinvolge. Se si pensa a Big data e Open data, la scuola ne è potenzialmente un generatore fantastico. Se si pensa a come la conoscenza sui comportamenti e le esigenze di nove-dieci milioni possono essere studiati in modo da garantire la privacy ma alimentare l’efficienza del sistema si può immaginare l’inizio di una grande stagione di grandi progetti: un’infrastruttura come questa potrebbe liberarsi dal peso delle infrastrutture private e internazionali per generare le condizioni di partenza di un’infrastruttura di rete davvero orientata al bene comune? Questo non potrebbe essere un grande progetto di ricerca che diventa insegnamento e viceversa? La condivisione di conoscenze che avverrebbe su un’infrastruttura del genere, standard e interoperabile, aperta e garante della privacy, non potrebbe diventare la premessa della reinvenzione degli strumenti didattici?
Viene voglia di pensare di sì. Viene voglia di sperare di sì.
6. Macchina organizzativa
Una macchina che riguarda quasi dieci milioni di persone, più le famiglie. Una macchina nella quale quasi mezzo milione è composto da persone che si definirebbero precari. Una macchina nella quale i risultati educativi sono profondamente diversi tra città e città, tra zone urbane e rurali. Una macchina nella quale alcuni insegnanti e dirigenti particolarmente illuminati hanno reso un grande servizio ai giovani fortunati che hanno frequentato le loro scuole. Chi fa il ritmo della macchina nel suo complesso? Dai problemi più gravi o dai battistrada?
È chiaro che il centro, il governo, deve dare un framework visionario e metodologico, garantire standard e interoperabilità per il riuso delle soluzioni. Ma in una macchina che va alla velocità definita da chi ha paura di perdere il poco che ha conquistato o che è indifferente al cambiamento perché ha speso la vita a contribuire senza essere riconosciuto o di chi non riesce ad accedere a un sistema che promette garanzie, una macchina che va alla velocità della conservazione non coglie le opportunità. La leadership centrale, in questo caso, deve dare il ritmo all’insieme.
Credo che ci siano pochi mestieri altrettanto difficili. E credo che si possa e debba rispettare qualunque impegno sincero orientato a portare una macchina così complessa nella direzione di darsi un ritmo strategico di innovazione adatto a costuire un futuro decente. Ma se l’azione riuscisse, non sarebbe un risultato importante: sarebbe il risultato più importante per tracciare una prospettiva in una società che ne ha disperato bisogno.
Ognuno dei sei capitoli citati meriterebbe un lavoro vero di analisi. E molti grandi esperti lo stanno conducendo. Mi scuso per la superficialità di queste righe. Servono, se servono, solo a mettere in fila i problemi di un lavoro di riflessione-azione sempre più necessario se si vuole guardare, come è necessario, al lungo periodo.
Rispetto all’innovazione digitale nelle scuole dovrebbero esserci:
– utilizzo esclusivo di software libero
– analisi critica degli strumenti che utilizziamo e le logiche di controllo che vi sono dietro
– incoraggiare la curiosità a capire come funzionano gli strumenti che usiamo, e l’importanza di saperlo e poterlo verificare
Stiamo promuovendo una legge Regione Lazio che promuove tali finalità e molto di più:
http://www.openmediacluster.com/er-softwacampagna-per-una-legge-regione-lazio-multi-partisan-pre-libero-servizi-telematici-trasparenti-web-aperto-e-partecipazione/
Sono riflessioni molto interessanti e che suscitano domande su domande. Il problema, come sempre accade è il come.
Passare dunque da una visione, ad una strategia ad un metodo efficace secondo me è il passaggio critico. Faccio la prova su me stesso.
Io sono del ’75, a 8 anni volevo fare l’attore cinematografico, sognando di imitare Bastian de “La storia Infinita”, a 14 volevo fare il pilota, per colpa di Tom Cruise e Top Gun. A 18 anni, come hobby scrivevo fanzine su fumetti e Cinema d’animazione, per cui volevo fare il giornalista. Finito il liceo scientifico l’anno successivo non sapevo effettivamente chi ero e sopratutto non avevo idea di come creare del valore aggiunto nella società di allora. La mia famiglia, entrambi dipendenti pubblici, avevano il mito del posto fisso oppure del libero professionista (Avvocato, Medico), all’epoca (1994) si sperava ancora di poter salire la scala sociale in modo meritocratico. Io Studio. Io Salgo. Io Guadagno.
Mi iscrissi a Giurisprudenza, ma mi accorsi subito dell’errore. Ormai da 18 anni mi occupo di informatica e sopratutto di Open Source (sul quale non scommetteva nessuno), ed oggi mi sono ritagliato una professione su questo. Ho avuto fortuna e determinazione, poichè ho intuito da solo che la mia visione del mondo del lavoro mi avrebbe garantito uno stipendio. La cosa straordinaria è che mi sono autoformato (oggi sono un Laureato in Giurisprudenza che si occupa di Linux..). Quanto avrei voluto allora che un pezzo della società civile, quindi la scuola mi avesse indirizzato ed aiutato ad andare in una direzione “socialmente utile”. Tutta questa lunga premessa per dire che secondo me a partire dalle scuole medie inferiori, la scuola deve aiutare il giovane a capire in quali settori formarsi e cosa aspettarsi lavorativamente nel suo futuro. Senza promettergli che se farà il medico o l’avvocato sarà ricco e famoso e se invece farà l’artigiano morirà di fame. Bisogna dire la verità e permettere alle persone di scegliere la propria formazione sapendo che il mondo del lavoro che si andrà ad affrontare 5-10 anni più tardi, sarà più ricettivo per alcune professioni, e meno per altre.
[…] Una bambina che inizia oggi il suo percorso scolastisco inizierà a lavorare, se tutto va bene, nel 2032. Ovviamente non conosciamo che mondo sarà “Sappiamo che il valore che saprà generare dipenderà da quanto potrà trasformare quello che impara in qualcosa che esprime le sue fondamentali capacità”. Così inizia un’interessantissima riflessione di Luca De Biase dedicata alle visioni a lungo termine di scuola, università, ricerca e innovazione. E si parte proprio dalla scuola. È la scuola che deve preparare a muoversi e adattarsi in un mondo che muta velocemente e per farlo c’è bisogno, aggiunge De Biase, di innovare profondamente il rapporto tra scuola, ricerca e università. Leggi il post! […]
[…] costruita all’interno di una logica complessiva. La visione è quella di scuola come “interfaccia educativa” composita, fatta di spazi per la quotidianità, e spazi dove spingere i confini della pratica. […]