Il dibattito sul destino delle forme di autorità culturale tradizionale viaggia tra due estremi, parrebbe: la critica dello “specialismo baronale o autoreferenziale” e l’orrore per la la “democratizzazione del sapere”. I contributi migliori, ovviamente, sono quelli che non si fermano alle posizioni estreme ma argomentano tenendo conto dei fenomeni nel complesso. Giuliano da Empoli ha scritto a proposito del primo punto di vista un libro importante. E Tom Nichols ha scritto recentemente un articolo sul Federalist che vale davvero la pena di leggere a proposito delle conseguenze negative della perdita di credibilità degli esperti. Naturalmente questo ha a che fare con la crisi dei giornali, la crisi dell’università, la crisi della fiducia negli argomenti della scienzamedica, la crisi del dibattito civico in politica e molto altro ancora.
Il problema nasce fondamentalmente dalla crisi di credibilità delle autorità culturali tradizionali, peraltro spesso molto ben meritata. Che d’altra parte non elimina il bisogno diffuso di attribuire fiducia all’opinione di qualcuno che si assuma il ruolo di pensa per gli altri. E dunque avviene che al posto delle autorità tradizionali sorgano al ruolo di generatori di opinioni persone che hanno percorsi si preparazione poco affini alle metodologie tradizionali di selezione dell’autorità culturale. Il loro punto di forza è essenzialmente nella capacità di farsi notare. Ne deriva una generale incertezza e una sfiducia diffusa, quasi un cinismo nei confronti di ogni sapere profondamente coltivato o semplicemente affermato, che rende ogni dibattito difficile da portare in fondo costruttivamente. Ma il punto è che, una volta si siano osservati questi fenomeni, occorre progettare una sorta di risposta. Anche qui il pensiero dell’innovazione è il principale percorso da avviare.
La crisi delle autorità culturali tradizionali, giornali, università, scienziati, è differenziata e non omogenea. La fiducia in alcuni tipi di esperti resiste meglio di altri e nei diversi ceti o gruppi sociali si osservano diverse opinioni in proposito. La credibilità della magistratura o dell’insegnamento scolastico regge in alcuni ambiti della società meglio che in altri. I giornali e i politici sono in ribasso più generalizzato. I finanzieri e i banchieri, in quanto esperti di economia, hanno avuto qualche grosso problema di recente. Gli scienziati sono tutto sommato ancora credibili per chiunque abbia studiato un po’, ma di fronte a dibattiti sulle medicine miracolose non reggono facilmente il confronto delle opinioni di massa più manipolabili.
Non si può dire che non ci siano buoni motivi per queste crisi:
1. La velocità del cambiamento epocale che viviamo svela la scarsa adattabilità di alcuni sistemi di selezione della qualità culturale. L’università baronale orientata più alla gestione delle cordate di carriera che alla generazione di conoscenze di qualità è giustamente messa in crisi dalla velocità culturale dell’epoca internettiana. La tenuta dell’élite culturale è meno forte in un contesto nel quale la rete consente di accedere a qualunque genere di informazione anche approfondita. I giornali non hanno più il monopolio dell’informazione in un contesto nel quale tutti possono contribuire con notizie, commenti e approfondimenti. E così via. La velocità di adattamento al nuovo contesto da parte delle autorità culturali tradizionali è stata troppo lenta per poter reggere al confronto delle soluzioni emergenti. D’altra parte, questo fenomeno lascia dei vuoti devastanti dei quali occorre tener conto.
2. Le forme di finanziamento del lavoro dei professionisti culturali che negli ultimi trent’anni si sono aperte a ogni forma di compromesso intellettuale con i detentori della ricchezza o del potere non hanno giovato alla credibilità di quel genere professionale; gli scienziati della medicina che hanno accettato si sostenere idee che avevano il solo valore di rafforzare la grande industria farmaceutica; gli esperti di economia che hanno accettato supinamente le richieste ideologiche delle grandi organizzazioni della finanza sostenendo nei confronti della politica riforme iperliberiste che si sono rivelate come minimo poco lungimiranti e delle quali paghiamo le conseguenze; i professori universitari che si sono prestati a sostenere le opinioni dei politici più ideologizzati e cinici pur di ottenere qualche vantaggio economico, politico, televisivo; i giornalisti che hanno abbandonato i criteri dell’indipendenza e della completezza per cedere alla tentazione di vivere nei flussi di attenzione generati dai dibattiti meno costruttivi… C’è molto da ammettere per queste categorie: la loro credibilità non era mai stata scontata ma alcuni l’hanno davvero svenduta mettendo a rischio l’insieme.
3. La tecnica della manipolazione delle opinioni nel contesto dei media di massa è stata adottata massicciamente per ridefinire i rapporti di autorità culturale a sfavore della paziente costruzione intellettuale e a favore della mera notorietà degli opinionisti. Insomma: a fare le spese del dissesto ecologico dei media di massa sono stati soprattutto coloro che esprimono conoscenze da argomentare, generate con metodo controllato e orientato all’analisi dei fatti; mentre se ne sono avvantaggiati coloro che erano disponibili a dire qualunque cosa purché in breve tempo, ad alta voce e davanti a audience gigantesche. Ne è uscito un sistema di generazione di idee fondato sul pregiudizio, la brevità sloganistica, la ricerca dell’applauso emotivo. E così via. Un contesto nel quale è stata penalizzata ogni forma di ricerca approfondita. E ha dato potere sulla selezione dell’autorità culturale ai gestori dei media di massa, televisione in testa.
Tutto questo ha messo in crisi l’autorità culturale tradizionale. Non è certo internet la causa del fenomeno. Casomai, internet è stata una via d’uscita contemporaneamente costruttiva e distruttiva. Ha accelerato la crisi. E ha aperto la strada a risposte, in alcuni casi ottime, in altri pessime. Ora è tempo di andare avanti: raccontata la crisi, direbbero gli americani, let’s move on.
L’approccio costruttivo per progettare la prossima struttura della selezione di autorità culturali non può partire dalla lode del passato. Ma dalla visione di un futuro di qualità migliore. Il lavoro intellettuale che serve alla società può essere riprogettato. I filtri all’information overload possono essere ripensati. La formazione profonda può essere riattivata. Ma occorre pensare avanti, non indietro.
Le novità si susseguono, in questa materia strategica per l’economia della conoscenza. Ma selezionare quelle che hanno conseguenze importanti da quelle che sono semplicemente attraenti richiede pensiero, visione e spirito empirico. Dobbiamo costruire.
Come sempre ci sono valori che superano le trasformazioni perché hanno una durata più lunga. Università, giornali, laboratori, centri di analisi economica non sono ancora macerie. Ma se non lo sono ancora è perché contengono un germe culturale fondamentale. Sono i portatori di un metodo. La conoscenza ha bisogno di metodo: ispirazione, visione-teoria, ipotesi-progetto, verifica-sperimentazione; indipendenza, completezza, accuratezza; rispetto dei diritti, spirito di servizio. Questi valori si possono inscrivere nelle nuove piattaforme di gestione e generazione della conoscenza che dobbiamo progettare e realizzare: che molti stanno progettando e realizzando. Ovunque nel mondo. I tentativi sono numerosi. Quelli che andranno in porto sono meno numerosi. Ma il compito è questo: riprogettare le piattaforme della conoscenza, perché su internet lo spazio di innovazione è ancora ampio.
In materia, qui è possibile solo andare per cenni. I temi di azione, per l’ecologia dei media digitali di rete sono molti. La qualità dei filtri. La critica della personalizzazione algoritmica. L’analisi dei big data in chiave commons. Le metafore civiche per la gestione delle discussioni. E così via. Cè abbastanza da lavorare per tutti. Questa è la “democratizzazione” di internet: non tutti i pensieri sono uguali a tutti gli altri; ma tutti i pensieri possono andare a verificare se reggono di fronte alla storia. Parlare di metodo e di conseguenze culturali del metodo, in questo senso, è strategico.
Credo che così come si è passati da una visione della fisica come deterministica, visione nella quale una freccia non può raggiungere un bersaglio posto oltre un muro più alto del bersaglio con una traiettoria retta, ma solo scavalcando il muro, ad una visione della fisica come probabilistica, dove la freccia ha una qualche probabilità di ricomparire oltre il muro e piantarsi nel bersaglio pur viaggiando in linea retta, allo stesso modo, si è passati da una comunicazione deterministica ad una comunicazione probabilistica.
L’informazione falsa ha qualche probabilità di passare nonostante non ci siano errori ed si operi tutti in buona fede. Questo perché si è sostituita la verifica deterministica (controllo diretto di corrispondenza tra evento ed informazione), ad una probabilistica (una popolazione di interpretazioni riguardo lo stesso evento nasce, e l’intervento degli stessi fruitori dell’informazione incrocia, sopprime, muta, etc. fino a fare uscire quella che diventa la notizia).
Non vede lei, in questo nuovo giornalismo partecipativo, il rischio (naturale, e non frutto di deviazione) che il lettore, che diventa a suo modo compartecipe della fornitura e della diffusione della notizia attraverso i social network, possa indirizzare l’informazione più che verso quella più vera, verso quella che gli farebbe più piacere leggere. Questo mi sembra un pericolo molto grave, specie per quanto riguarda le questioni scientifiche. C’è un problema di responsabilità. Se prima la verifica stava in capo al giornalista che ne rispondeva, ora la sua diffusione deresponsabilizza: il branco protegge.
La conoscenza a portata di tutti è lodevole mi pare di capire da questo “j’accuse” della troppa informazione internettiana. Non sarà che questo “tutti” ragionevolmente non riesce a fare la distinzione tra la cultura come pura conoscenza e l’informazione che si trova in rete come puro chiacchiericcio
Logorroico. La lettura critica e selettiva e’ il primo strumento cognitivo che ci viene dato dall’ambiente culturale in cui siamo cresciuti. Sviluppiamo questo ambiente dove dobbiamo evolvere con criterio e riappropiamoci della Storia dei nostri antenati.
Bubbole, probabilmente
La disponibilità a buon mercato di informazioni/conoscenze “alternative” alla informazione/conoscenza classica è certamente un fattore che “mette in crisi le autorità culturali” , ma:
– da un lato potrebbe essere che, come un gioco nuovo in mano ad un bambino, ci sia la fase di entusiasmo, che poi descresce sino all’indifferenza;
– dall’altro gli stimoli che si ricevono da ogni parte ( TV, pubblicita, Internet) disegnano una realtà “superficiale”, semplificata. Come chiedere alla gente di approfondire? a quale pro? molto più semplice agire “di pancia” .
– esiste ancora un problema di linguaggio, che le agenzie culturali non hanno adeguato ai tempi (si veda anche questo post, non proprio semplice da digerire, o questo commento su Wired
Luca, Ho apprezzato particolarmente questo pezzo.
I nuovi media hanno alterato il concetto di reputazione.
Si è seguita la seguente progressione:
1. sta scritto così sulla treccani, quindi mi fido.
2. ne hanno parlato sui giornali, è vero.
3. se lo dicono in tv sarà vero
4. lo dicono sui blog
5. 1000 hanno cliccato “like” quindi deve essere così
In questa progressione, l’influenzabilità delle fonti aumenta, e diminuisce la reputazione media del singolo.
Non è stimolata la produzione di opinioni, ma solo il relativo consumo, ridotto al semplice “like” o “click”.
I motori di ricerca hanno sviluppato nel corso degli anni dei sistemi di scoring (purtroppo undisclosed) per valutare la reputabilità di un contenuto.
Simili strumenti sui social network sono ancora in divenire, ed è dubbio se sia sensato offrirli da parte dei social network stessi, molto orientati al consumismo e al cross-marketing.
Ne risulta che è sempre più difficile valutare la reputazione o l’autorevolezza di una fonte.
Lo stesso concetto di “leak” tende a favorire la diffusione di nuove forme a-scientifiche e poco fondate di saperi che non sono critici, ma che sono accettati come più autorevoli semplicemente perchè (apparentemente o meno) supportati da grandi masse di utenti.
Ritengo che una possibile evoluzione sia il rilancio del pensiero scientifico, e la validità comunque del suo metodo.
In merito, una frase che mi piace citare è
“Science works whether you believe in it or not.” — Herb Silverman
Che potrebbe trasformarsi in: “Science works even if you do not click on it”.
Marco
[…] Vedi anche: Salute, bugie, propaganda e qualità dell’informazione Gli intellettuali e l’ecologia dei media […]