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Sul business dell’editoria in digitale, questioni aperte da troppo tempo

In un’intervista di qualche giorno fa a Lo spazio della politica, Andrea Santagata di Banzai offre alcuni spunti di riflessione importanti sull’editoria dell’informazione.

Aiuta a fare un bilancio di cose osservate e tendenze chiare. Per arrivare a conseguenze che impongono due vie: o si cambia radicalmente o si riducono le risorse per il business degli editori che si occupano di informazione in versione cartacea tradizionale. L’urgenza non è più una questione per visionari. E’ una questione stringente per tutti.

IL punto di partenza di Santagata è la constatazione del fatto che la vendita di contenuti di informazione in rete è molto difficile.

Quindi resta la pubblicità. La pubblicità digitale aumenta. E’ arrivata a 1.3 miliardi e se cresce come ha fatto finora può arrivare a 2.2 miliardi nel giro di cinque anni. Contemporaneamente la pubblicità convenzionale diminuisce. E in valore assoluto diminuisce di più di quanto quella digitale aumenti. Non solo. Mentre la competizione per la pubblicità cartacea resta confinata alle aziende editoriali, su internet competono per la stessa pubblicità anche le piattaforme di distribuzione e ricerca delle notizie: un po’ come se gli edicolanti e i trasportatori si facessero pagare dagli inserzionisti dei giornali di carta. La forza delle piattaforme è tale che raccolgono almeno 700 milioni (sui citati 1,3 miliardi). Per gli editori tradizionali in versione online la competizione è durissima.

Inoltre, il tempo mediatico si divide molto. Quando si comprava un giornale di carta l’attenzione del lettore restava su quel giornale per lungo tempo. Ora sul sito di informazione può restarci pochissimo tempo e il passaggio a un concorrente è abbastanza facile.

La competizione per la pubblicità e per il tempo mediatico è estremamente dura. Difficile, conclude Santagata, che il bilancio si risolva positivamente per gli editori se non cominciano a concentrarsi fortemente sulla riduzione dei costi.

Questo ragionamento è perfettamente razionale. Ci sarà una spirale di riduzione delle risorse per gli editori tradizionali. A meno che…

A meno che non si introducano innovazioni radicali.

Le domande si accavallano e le proposte di soluzione fin qui sperimentate sono molte. Gli obiettivi immaginabili da questa innovazione radicale, alternativi o cumulativi, sono:
1. Trovare il modo di far pagare le notizie (dalla narrazione dei fatti in teatro al servizio digitale personalizzato e oltre)
2. Trovare il modo di convincere i lettori a sostenere il servizio di informazione con formule di “membership”
3. Passare a una formula non profit e cercare il sostegno della comunità dei “benefattori”
4. Creare piattaforme più efficienti e interessanti di quelle create dai motori algoritmici e sociali esistenti.
5. Embedding delle notizie in contenitori non replicabili di tipo ispirato all’esperienza dei sistemi iTunes-iPod o Amazon-Kindle.

Nessuna di queste strade è facile. Sicuramente andranno perseguite in modo molteplice, sperimentale, non ideologico. Ma con energia.

La competizione sulle notizie atomiche messe in rete valorizza i sistemi per trovarle. E le home page dei siti editoriali sono solo un modo per trovarle: gli utenti di Facebook, Twitter e Google spesso le trovano in altro modo.

Il coinvolgimento del pubblico nelle vicende dell’informazione può avvenire in modi vari. Le decisioni collettive hanno bisogno di informazione metodologicamente corretta. Perché una o più tra le cinque strade citate possa funzionare occorre inevitabilmente un insieme di scelte decise per ottenere una riconoscibile qualità del servizio di informazione a favore del pubblico – e non dei sistemi di potere – con un’innovazione tecnologica e di design che cambi radicalmente il ritmo e la leadership nel settore. C’è molto da fare. Con passione, visione e spirito empirico. Imho.

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  • Caro Luca,

    interessanti senza dubbio le considerazioni di Santagata e molto puntuali i tuoi commenti. Tuttavia noto che in nessuno dei due articoli citate un elemento a mio avviso imprescindibile nel valutare la salute dell’editoria digitale nel nostro paese. Mi riferisco ad alcuni elementi strutturali – come la pratica delle overcommission (o DN) – del mercato pubblicitario italiano che finiscono per rafforzare la distorsione distributiva delle risorse pubblicitarie disponibili per gli editori (al netto di Google e dei classified).

    Come ben sai l’Italia è l’unico paese in Occidente (ma credo anche al mondo) a non vietare questa pratica che in sintesi consiste nel fatto che gli investitori pubblicitari non pagano (o pagano molto poco) i centri media che per loro conto pianificano le campagne adv. I centri media di converso vengono retribuiti invece dalle concessionarie (o dagli editori) che retrocedono loro quote rilevanti (dal 12% al 30%) del budget allocato.

    Questa pratica ha effetti distorsivi su due livelli: (1) favorisce gli editori tradizionali (tv, carta, radio) verso quelli digitali, perchè hanno volumi maggiori di over da negoziare; (2) favorisce gli editori già presenti sul mercato a favore dei new comers, per ragioni non dissimili. Infine, la cosa più tragica, è che poichè le negoziazioni sulle quote di riparto tra editori/concessionarie e centri media avviene all’inizio dell’anno (sulla base delle performance dell’anno precedente) di fatto grande parte dei budget adv viene ripartita a monte e non a valle.

    Insomma a me pare che questo sia un punto fondamentale da smarcare (magari introducendo una legge che come hanno fatto quasi dieci anni fa in Francia con la cd. Loi Sapin che ha vietato la pratica delle DN) prima di capire quale sarà il futuro dell’editoria digitale in Italia.

    Certo questo non toglie che molti degli argomenti di cui parlate siano validi e importanti. Mi riferisco soprattutto alla individuazione di format di informazione “premium” per cui gli utenti sarebbero disposti a pagare. Credo l’esperienza del NYT sia sicuramente da analizzare meglio, ma anche il concetto stesso di “digital first” che The Guardian (con la sua Fondazione) stanno portando avanti vadano capiti meglio e studiati nei dettagli.

    Ma una domanda mi rimane: siamo sicuri che siano gli editori dell’offline (che hanno molto da perdere e poco da guadagnare) e non i digital native gli attori più adatti a portare avanti la rivoluzione dell’informazione digitale nei prossimi anni ?

  • Io aggiungerei anche una seria riflessione sul prodotto. Mi sembra che sino ad oggi le aziende editoriali abbiano cercato di trovare un modo per far soldi portando il cartaceo sul web, mentre credo che il prodotto vada ripensato completamente partendo da zero e soprattutto deve essere di qualitá.

  • Io aggiungerei anche una seria riflessione sul prodotto. Mi sembra che sino ad oggi le aziende editoriali abbiano cercato di trovare un modo per far soldi portando il cartaceo sul web, mentre credo che il prodotto vada ripensato completamente partendo da zero e soprattutto deve essere di qualitá.

  • un organismo mondiale no profit che fa pagare ,mensilmente, 30 cent per ogni ora di comunicazione;
    il sistema riparte questo valore tra i vari sites visitati, sulla base del tempo che l´utente dedica a ciascun site;
    i site si registrano come ad una specie di google adsense;
    alla fine del mese chi ha usato 100 ore di web pagherá 30 euro;
    in sostanza oltre a pagare il costo del servizio web, si paga un tot per i contenuti

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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