L’università va cambiata. Ma senza una visione strategica, ogni minima o grande riforma non servirà a niente. Naturalmente non è un post lo strumento per affrontare una questione tanto enorme. E non è l’autore di questo post. Al massimo può servire a condividere il sentimento di quanto l’argomento sia importante.
[hang1column]I temi in discussione[/hang1column]
I temi in discussione – anche se l’elenco non è probabilmente esaustivo – sono:
1. valutazione dei docenti-ricercatori
2. miglioramento della didattica
3. miglioramento della ricerca
4. gestione economica dell’università
5. ruolo civico dell’università
Recentemente si è affrontato il problema concentrando l’attenzione sul punto 1 e il punto 4. Nuovi consigli di amministrazione e nuovi modi per valutare i professori sono effettivamente mezzi per innescare una riforma. Il modo con il quale questi cambiamenti vengono realizzati, però, ha conseguenze su tutti gli altri. Se non si tiene conto delle conseguenze sulla didattica, la ricerca, il ruolo civico dell’università, si è autorizzati a pensare che i cambiamenti recentemente introdotti non fossero pensati per altro scopo se non quello di rivoluzionare il sistema di potere nell’università, aumentando il peso della politica, sostenendo le principali cordate baronali e riducendo l’indipendenza e l’innovatività dei sostenitori delle logiche pubbliche dell’università.
L’università è nata in Italia come luogo indipendente dal papato e dall’impero di elaborazione intellettuale. L’Italia era allora uno del luoghi più ricchi e culturalmente attivi del pianeta. I docenti viaggiavano in tutta Europa, scrivevano e insegnavano, servivano a creare uno spazio di elaborazione culturale che non facesse il gioco specifico dei due grandi poteri. L’equilibrio operativo di una condizione tanto delicata era un lavoro straordinario. Altrove le logiche erano in parte diverse. E i sapienti al servizio del potere non mancavano. Come ovviamente non mancavano nella stessa Italia.
Inutile ricordare quando le dinamiche culturali da allora siano state a più riprese rivoluzionarie. Da Copernico a Galileo, da Giordano Bruno a Immanuel Kant, la scienza, la stampa, la riforma, la controriforma, l’illuminismo, la rivoluzione francese, il romanticismo… L’università è ovviamente cambiata profondamente dai suoi esordi. Il nazionalismo non ha mancato di asservirla alle logiche statali in certi paesi, mentre in altri l’economia di mercato non ha cessato di influire sulla sua struttura. Oggi, la tecnologia e la mondializzazione portano nuove sfide e opportunità: sappiamo solo che l’università pubblica non è l’unica possibile. Ma sappiamo anche che senza indipendenza intellettuale e consapevolezza del suo ruolo civico si limita a svolgere il compito di una scuola superiore, oppure diventa un laboratorio in costante ricerca di finanziamenti. L’indipendenza intellettuale ne risulta limitata.
L’immagine dell’università sottintesa in molte riforme nate nei trent’anni di pensiero unico iperliberista è quella di un’azienda produttrice di laureati e invenzioni al servizio del sistema produttivo, che non cessa di lamentarsene, anche dove affida alle casse dello stato il costo di queste attività. E’ un’immagine che si oppone a quella precedente: vagamente feudale e statalista di un’università autonoma da ogni condizionamento di mercato e da ogni connessione con la realtà attuale.
Forse è tempo che le funzioni si chiariscano e che i modelli di sostenibilità si facciano più solidi. Si potrebbe immaginare che il lavoro di ricerca applicata al servizio dell’industria e dell’ecosistema delle start-up sia fondamentalmente pagato dal mercato; che il ruolo di preparazione di dirigenti per le organizzazioni pubbliche e private sia pagato da questi e dalle famiglie; ma se questo non tiene conto della costruzione intellettuale di una classe dirigente indipendente e dunque potenzialmente innnovativa, se questa classe dirigente non è aperta e consapevole del suo ruolo civico, se si rinuncia alla ricerca di frontiera non immediatamente connessa al mercato, se l’università non apre le menti, non è fatta per liberarle e connetterle al mondo, se resta gestita dalle baronie e dalla politica statale, o se resta bloccata nella ricerca capillare e infinita di trovare finanziamenti, allora probabilmente l’università cessa di esistere. E qualcos’altro la sostituisce.
Qualcosa che conquisterà il suo posto in molti anni. Ma del quale c’è e ci sarà bisogno. Qualcosa che ha a che fare con l’indipendenza, dal mercato e dallo stato, come non può non essere la cultura. Qualcosa che fa largo uso innovativo dei nuovi media, che si finanzia in base all’impegno civico della manutenzione dei commons culturali e in base alla visione degli innovatori che riescono a farsi adottare dalle famiglie, in una chiave di apertura esperienziale mondiale. Un modello del quale non vediamo che i primi pallidi segni, in rete. Ma che è probabilmente destinato a crescere con lo sviluppo della consapevolezza di alcune grandi università esistenti e capaci di riformarsi.
La visione strategica: cultura cosmopolita (internazionale e territoriale), empirismo ed esplorazione delle frontiere, creazione di valore intellettuale, indipendenza e senso civico, sono gli investimenti fondamentali nell’epoca della conoscenza. Chi comprende come attirarli e metterli a frutto farà fare un passo enorme all’umanità che si sta riorganizzando. E non importa se a farlo saranno organizzazioni statali, regionali, private, comunitarie: l’importante è che costruiscano una prospettiva adatta al mondo attuale. Imho.
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