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Philip Campbell, Nature: le pubblicazioni scientifiche si aprono

Philip Campbell, direttore di Nature, incontrato a TED, osserva il più grande cambiamento editoriale del momento nel mondo della scienza: «Se i fondi pubblici finanziano la scienza, la scienza deve essere accessibile senza costi eccessivi per l’acquisto delle riviste». E, dimostrando molta lungimiranza, Campbell appoggia questo cambiamento. Non solo. La sua rivista rilancia. E avvia un dibattito sull’apertura culturale della scienza, la trasparenza delle regole per chi partecipa agli esperiementi, la qualità della partecipazione della società all’evoluzione della pratica scientifica. Mentre i grandi atenei americani aprono gli insegnamenti alla rete.

È un cambiamento che annuncia una nuova fase della ricerca scientifica. Più partecipata socialmente. Più giusta e aperta. Più creativa. Dopo una fase di chiusura ed esagerato orientamento alla protezione della proprietà intellettuale.

[hang1column]La cultura scientifica
è accessibile. O non è
[/hang1column]

L’oligopolio delle pubblicazioni scientifiche in effetti sta esagerando. La biblioteca di Harvard si difende e contrattacca. Un memorandum del consiglio degli insegnanti dell’università parla chiaro e forte: «La politica dei grandi editori di riviste scientifiche sta generando una condizione fiscalmente insostenibile e accademicamente restrittiva». I prezzi degli abbonamenti stanno andando alle stelle, con aumenti anche del 145% negli ultimi sei anni e prezzi che ormai raggiungono l’ordine delle decine di migliaia di dollari all’anno. Il presidente del consiglio dice: «La crescita è semplicemente spettacolare e ci sta danneggiando seriamente». Il consiglio suggerisce a tutti i professori e alle associazioni disciplinari di cominciare a lavorare con pubblicazioni aperte per riprendere il controllo della comunicazione accademica che rischia di diventare impossibile. Intanto, all’Mit, un gruppo di 45 ricercatori ha formato l’Open Access Working Group. Negli ultimi 25 anni circa il costo per gli abbonamenti alle riviste scientifiche dell’Institute è cresciuto del 426% nonostante che il numero di riviste acquistate sia stato ridotto del 16 per cento.

Non è soltanto una questione di costi, come dicono a Harvard e all’Mit. È anche – e forse soprattutto – un problema di accesso alla conoscenza. La ricerca si fonda sulla condivisione dei risultati di tutta la comunità scientifica e viene certamente frenata dalle difficoltà di comunicazione. Inoltre, come osservava l’Economist, c’è una profonda irrazionalità in una condizione nella quale una buona parte della spesa in ricerca è pubblica ma i suoi risultati sono privati e inaccessibili se non a prezzi esorbitanti. Col risultato che le biblioteche pubbliche devono svenarsi per comprare conoscenze che sono state generate da soldi pubblici.

Gli editori di pubblicazioni scientifiche godono di una situazione particolarmente privilegiata: non pagano per gli articoli e in generale non pagano per le valutazioni professionali sulla loro dignità di pubblicazione, sono centri di potere crescente visto che la carriera accademica è sempre più legata alle pubblicazioni e alle citazioni nei giornali più importanti e spesso costosi, lavorano in un mercato poco concorrenziale. La Elsevier, uno dei principali editori del settore, ha fatturato nel 2011 oltre 2 miliardi di dollari con un profitto del 37 per cento. La casa editrice ha fatto sapere di non ritenersi coinvolta nella critica mossa da Harvard.

Comunque sia, questa situazione potrebbe essere destinata a cambiare. Proprio a causa del fatto che la pubblicazione, la valutazione e la revisione degli articoli scientifici è realizzata gratuitamente dai ricercatori e serve ad altri ricercatori, si stanno moltiplicando le iniziative che consentono di accedere alle pubblicazioni liberamente online. Intanto, la varietà dei contributi si amplia, con la diffusione di working papers, riassunti per gli studenti, scambi di opinioni e informazioni nei social network anche specializzati: ResearchGate, una rete di scienziati nata in Germania, ha raggiunto il milione e mezzo di iscritti e si sta espandendo proprio sulla base di una sanissima convinzione: è probabile che la conoscenza sia potere ma è inaccettabile che il potere definisca la conoscenza.

ps. parte di questo post era uscito su Nòva alcune settimane fa.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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