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Antonio Casilli e i lavoratori del web

Dominique Cardon e Antonio Casilli scrivono Qu’est-ce que le Digital Labor? (Ina). E Antonio Casilli ne parla in un’intervista per Libération.

libro-casilliL’idea è chiara. Le attività che le persone svolgono sulle grandi piattaforme online generano valore, sono regolate da contratti e producono risultati che vengono misurati: dunque sono una forma di lavoro.

In altre forme narrative, quelle attività sono forme di condivisione: sui social network, si dice, le persone si scambiano in dono tempo, attenzione e informazione. In altri casi, quelle attività sono descritte come forme di consumo di servizi online in cambio del diritto concesso alle piattaforme di rivendere agli inserzionisti pubblicitari l’attenzione così generata. Ma Casilli suggerisce che invece quelle attività sono un lavoro. E ne discute con Cardon.

Internet è sempre meno valutabile a una dimensione. L’infosfera si confonde con l’ambiente. Le piattaforme regolano molto più di quanto appaia. E, come dice Cardon, internet non è più “simpatica”: piuttosto è problematica. La consapevolezza della complessità rende inaccettabile la banalità. Ma non elimina il ricorso, tradizionale sulla rete, alla comprensione per via di metafora. Anche perché la metafora è spesso insieme pensiero e strumento: perché si incarna spesso nel design delle piattaforme e le rende più facilmente utilizzabili.

Ma l’idea che gli “utenti” delle piattaforme, come Facebook, Twitter e le altre, siano da rinominare “lavoratori” è una descrizione o una nuova metafora?

Di certo, fonda un filone di ragionamenti molto ampio. Un punto controverso riguarda il pagamento di quel lavoro: viene remunerato abbastanza con il vantaggio di usare la piattaforma e di ottenere il guadagno di “notorietà”, “connessione”, “conversazione” con gli altri? O dovrebbe valere dei soldi? E in questo caso quanti? Tenendo conto del fatto che una piattaforma come Facebook fa circa un paio di dollari di utile per utente all’anno, il lavoro andrebbe forse pagato con una frazione di quei due dollari all’anno? Ridicolo. La questione diventa più interessante se si parla di Uber, per la quale un inizio di processo è avviato in California e riguarda la possibilità che i contractor siano definiti impiegati. Probabilmente l’evoluzione più forte è nell’ambito della “on demand” economy dei “digital turks” in stile Amazon. Ma la logica delle piattaforme è quella di fare pochissimo valore aggiunto su un enorme volume di transazioni e quindi di dividere i “lavoratori” in fornitori di “frazioni infinitesimali di valore”: troppo poco per essere significativo, troppo disperso per dar luogo a forme di organizzazione di tipo sindacale. Certo, la vera remunerazione delle piattaforme è in conto capitale. E si potrebbe pensare a una redistribuzione delle azioni: ma anche in questo caso è poco perché cento o anche duecento miliardi di capitalizzazione di Facebook da redistribuire per un miliardo e mezzo di utenti non offre grandi soddisfazioni. Forse l’unica strada di liberazione è progettare piattaforme pensate per essere usate e non per essere sfruttate, senza generare alcuna forma di asimmetria informativa. La strada della riflessione è ancora lunga. E una lettura attenta di Casilli e Cardon non ha soltanto il valore di merito dei temi trattati: è anche un’ispirazione a superare i luoghi comuni e i preconcetti.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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