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Ancora chiose su Anderson, Bell e Shirky

Su sollecitazione di una ricerca universitaria è nata l’esigenza di chiosare ancora il rapporto di C.W. Anderson, Emily Bell e Clay Shirky intitolato Post-industrial journalism. Adapting to the present. Perché si intitola così? Questa è un’interpretazione.

Quando gli osservatori si sono accorti della fine del processo di industrializzazione in Occidente hanno aperto un dibattito sulla società che si andava formando e hanno trovato un concetto provvisorio riferendosi alla società post-industriale. In quel modo si segnava un passaggio, si affermava la fine di molte abitudini interpretative, ma non si riconoscevano le caratteristiche della nuova epoca. Si designava ciò che non c’era più ma non ciò che si stava creando. La maturazione dell’analisi ha consentito di proporre concetti più orientati a descrivere la struttura della nuova società che a sottolineare la scomparsa della precedente: sicché dapprima si è parlato di “società dell’informazione” e poi di “epoca della conoscenza”. Si trattava in ogni caso di un cambio di paradigma, dunque dell’avvento di un nuovo quadro interpretativo generale, di una nuova visione del mondo. E ovviamente prima o poi ci si doveva accorgere che questo aveva conseguenze anche per il giornalismo.

Il rapporto di Anderson, Bell e Shirky, riferendosi al giornalismo post-industriale sottolinea quanto questo ambito della generazione di sapere sia ancora legato a ciò che non c’è più e dunque quanto abbia bisogno di prendere consapevolezza del nuovo contesto paradigmatico. Quello che non c’è più è l’editoria dei giornali che controlla la tecnologia produttiva e il copyright, governa tutta la filiera della produzione di giornali, controlla la risorsa scarsa dello spazio sul quale si può pubblicare. Accorgendosi di quello che non c’è più il giornalismo entra nella fase post-industriale. Ma che cosa significa passare all’epoca della conoscenza?

Significa scoprire che il valore economico si concentra sul contenuto immateriale dei prodotti, che i prodotti materiali (ovviamente fondamentali) sono diventati anche media che trasportano messaggi, che la creazione di nuovo valore discende dalla ricerca e dall’innovazione più che dalla produzione di massa, che il pubblico ha il potere di scegliere e di partecipare perché la risorsa scarsa è il suo tempo, la sua attenzione e il suo orientamento a considerare rilevante un contenuto. In un certo senso, tutti i prodotti sono anche un po’ media. E il luogo dell’espressione giornalistica trova nuovi competitori ma anche nuovi spazi.

In questo senso il giornalismo dell’epoca della conoscenza sposta l’asse dell’innovazione dalla tecnica di produzione alla ricerca di nuovo sapere, di nuovo design, di nuove forme di esposizione dell’informazione, non per imporre il frutto del proprio lavoro ma nella speranza che questo venga adottato “da quello che un tempo veniva chiamato pubblico”. Questo non può che avvenire sulla scorta di un metodo: la qualità della ricerca e del valore che genera discende dalla qualità del metodo con il quale viene condotta.

La filiera dell’epoca della conoscenza parte dalla ricerca e dallo sviluppo, dunque riserva uno spazio strategico per gli investimenti nella sperimentazione e nella costruzione di teorie e visioni; innova tecnologie, design e linguaggi; produce messaggi destinati a viaggiare su molti mezzi, tradizionali, digitali, ma anche inusuali come il teatro e altro. Gli sconfinamenti che invadono il vecchio campo del giornalismo possono anche essere tradotti in invasioni del giornalimo in campi che non gli appartenevano in passato. C’è davvero molto da studiare e… fare. Ma è il momento. E non c’è più tempo per aspettare di capire. Tanto, in effetti, si è capito molto. Come dimostra appunto il rapporto citato.

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  • Se riuscissimo a spiegarlo agli editori…Tra l’altro ho dato un’occhiata alla ricerca e, nonostante mi piaccia molto, temo che senza una riflessione sul modello di business, parliamo di un mondo delle idee che non esiste.Mi va molto bene che si studi il nuovo ecosistema dei media con un ruolo molto forte degli utenti. Il problema, per organizzazioni for profit come la mia, il problema comincia ad essere come migliorare le metriche, in modo da rendere produttivo l’investimento pubblicitario, come si lavora sulle interfacce dei Cms e, in generale, come devono essere ristrutturate le redazioni per affrontare (per essere presenti…) nel nuovo ecosistema. Le sistematizzazioni dell’esistente sono molto utili. Ma poi?

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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