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Background, giornalismo

Nell’aprile del 1999, Andy Grove, capo dell’Intel, annunciò ai leader delle grandi aziende editoriali americane che i giornali di carta avevano ancora tre anni di vita. Non era la prima volta che si parlava di questo possibile scenario. Tanto che nel resoconto del New York Times si legge che forse gli editori avrebbero potuto alzare gli occhi al cielo per l’ennesima predizione catastrofica sul loro business. Ma non lo fecero. Perché quello era Andy Grove. E perché raccontava come anche all’Intel era toccato di affrontare una crisi simile, quando alla fine degli anni Ottanta aveva perso il mercato delle memorie contro la concorrenza di produttori imbattibili sul piano dei costi. E per Grove i giornali si trovavano di fronte alla concorrenza di sistemi a basso costo di distribuzione basati su internet che li avrebbero spiazzati. E consigliava di prendere le misure necessarie a trovare un nuovo centro al loro business. Su Salon si trova ancora l’articolo dell’Associated Press che intervistava molti presenti. Ben pochi volevano fare la figura di chi non è abbastanza moderno da negare il problema. E molti invece davano sostanzialmente ragione a Grove, non magari sui tre anni, ma sulla tendenza di fondo.

Nel 2002, tre anni dopo, i giornali non avevano chiuso e per la verità ben pochi parlavano di una loro crisi. Invece, erano state molte aziende internettiane fiorite tra il 1998 e il 2000 a chiudere o andare in crisi, insieme alla storia finanziaria che aveva favorito la bolla speculativa di quella fine millennio. Ma mentre si erano prosciugati i fiumi di dollari che andavano a finanziare start-up internettiane, un oceano di persone continuava a spostare tempo e attenzione verso quello che trovava su internet. Anche perché in quel periodo prendeva il volo un fenomeno nuovo: i blog di informazione. 
Proprio in quel 2002, il pioniere dei blog Dave Winer, lanciò una scommessa sul sito
Long Bets immaginando che cosa sarebbe successo nei cinque anni
successivi: «Cercando su Google le cinque parole-chiave o le cinque
frasi capaci di rappresentare le notizie più importanti del 2007, i
blog compariranno più in alto del sito del New York Times». Martin
Nisenholtz, ceo del New York Times Digital, accettò la scommessa:
duemila dollari. 
Nel agosto del 2006, l’Economist si era accorto che qualcosa di grosso era accaduto all’industria dei giornali. Aveva analizzato la situazione, era arrivato alla conclusione che i giornali di carta erano morti e che qualcuno li aveva assassinati. La copertina si intitolava infatti Who killed the newspaper?
Nel 2007, Winer vinse alla grande la sua scommessa. I blog, nel 2007, erano diventati tanto popolari e citati tra gli utenti di internet da superare il grande giornale newyorkese nel “ranking” di Google.
Con la crisi finanziaria iniziata nel 2008 e peggiorata nel 2009, la questione investì in pieno gli editori. La pubblicità se n’era andata. I lettori avevano continuato a diminuire. I bilanci di una quantità incredibile di giornali andarono in rosso (non quelli dell’Economist che comunque ci aveva cominciato a pensare molto prima e non quelli del Financial Times, anche grazie alla quota detenuta nell’Economist). Ci fu una bizzarra querelle, alimentata dagli editori più ondivaghi nella loro strategia internettiana, come Rupert Murdoch, secondo la quale i giornali avevano diritto a un pagamento per i loro prodotti: nessuno lo negava, il problema era scoprire come potevano ottenerlo.
Avrebbero dovuto investire per tempo sull’innovazione, gli editori, ma (e questo Grove lo aveva previsto), cominciarono a farlo quando erano veramente preoccupati. E per fortuna quando erano veramente preoccupati videro che c’era qualcosa da fare di immediato e abbastanza rassicurante.
No, non il Kindle. Nel 2010 arrivò l’iPad e alcuni sentirono che era la nuova piattaforma che faceva giustizia del web così difficile da usare per i prodotti a pagamento. Ma capirono che era una piattaforma che imponeva di fare prodotti migliori. Insomma, dava un senso all’investimento all’innovazione, non ne eliminava la necessità.
Si può raccontare tutto questo al passato perché è la premessa di quello che deve succedere. E che può essere molto, molto interessante. Potremmo essere alla vigilia di una storia degna della bellezza che abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni. Perché finora l’ecosistema dell’informazione ha visto una fioritura di nuove iniziative e un’erosione delle attività tradizionali. In questo processo, anche grazie alla crisi, è emersa una consapevolezza: non stiamo parlando di scenari e previsioni azzardate; sta succedendo qualcosa di molto reale. E questa consapevolezza è la premessa per fare un salto di qualità nelle risposte da parte di tutti i soggetti implicati: editori, pubblicitari, giornalisti, designer, tecnologi, pubblico attivo, comunità.
E affrontare il tema dei temi, quello che è riportato in un passaggio del libro di Massimo Gaggi e Marco Bardazzi e sul quale occorre meditare molto. Gli autori citano studi dell’università di Chigago sulla credibilità di varie istituzioni americane nell’opinione della popolazione degli Stati Uniti. “Dagli anni Settanta fino alla metà degli Ottanta, la stampa in quando a credibilità era alla pari con i militari, il Congresso, le fedi religiose. Ma negli anni Novanta ha cominciato a perdere posizioni. Nel 1990 il 74 per cento degli americani era ancora pronto a dire di avere fiducia nella libertà di stampa e nei contenuti dei media. Ma dieci anni dopo la percentuale era già slittata al 58 per cento. E da allora ha continuato a scendere, bocciando indistintamente organi di stampa progressisti e conservatori”. Difficile dire se i Italia un’analoga rilevazione porterebbe a risultati diversi.
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  • Tutto sto panegirico, per altro molto avvincente, per finire con la solita marchetta all’iPad.
    Francamente mi aspettavo qualcosa di piu’ da un giornalista come te. E invece tutti a fremere per questo nuovo giocattolo.
    Ma visto che la parola innovazione è piuttosto inflazionata dalle tue parti, perchè non spieghi che cosa ha di innovativo questo iPad? Ma prima intendiamoci sul significato di innovazione. E’ innovativo qualcosa che prima non c’era? Oppure è innovativo qualcosa che cambia un paradigma? Oppure dobbiamo interrogarci sul significato piu’ culturale della parola innovazione? E’ innovativo qualcosa che ci faccia davvero fare un passo avanti in termini di condivisione e distribuzione dei contenuti.
    E quindi ritorno a bomba: cosa ha di innovativo (per noi utenti) un aggeggio simile? Che incorpora un browser di contenuti recintato? Tutto quello che prima si faceva con un browser ed era gratis adesso lo posso fare con una “applicazione” e il piu’ delle volte a pagamento.
    Se cercare di far pagare le news sul web era considerata una bestemmia, allora le news le travestono da applicazione e guarda come tutti sono contenti di pagarle.
    Non capisco davvero come si possa parlare di innovazione a proposito di Kindle, iPad & co. quando un’unica società costruisce un oggetto e decide al 100% cosa si possa o non possa leggere: L’antitesi di internet

  • Nessun panegirico.. Se dó questa impressione mi scuso.. Ma ho opinioni che riporto nel nuovo post di oggi.. Attendo di sapere che ne pensi.. Grazie in ogni caso..

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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