Il libro di Ezio Manzini, “Design, When Everybody Designs. An Introduction for Social Innovation” (Mit Press 2015), è una grande visione che incoraggia chi si sta impegnando nella ridefinizione delle logiche dell’innovazione cercandone il senso.
Un passaggio, ripreso oggi su Nòva, impone una riflessione in vista della presentazione di domani alla Triennale.
«Il design per l’innovazione sociale è tutto quello che un progettista esperto può fare per attivare, sostenere e orientare i processi di cambiamento sociale in funzione della sostenibilità… Non si intende un nuovo tipo di design: è uno dei campi di cui la progettazione contemporanea già si occupa… L’ampia gamma di possibilità che emerge possiede, però, un tratto in comune: sono tutti contributi alla conversazione sociale su cosa fare e come farlo. In pratica sono un insieme di conversazioni volte all’azione che, secondo le parole di Terry Winograd (e nello spirito dell’ottica Linguaggio/Azione) sono “le strutture di coordinamento centrali per le organizzazioni umane”. Nel nostro caso queste conversazioni si svolgono fra vari attori sociali tutti interessati a raggiungere lo stesso risultato (per esempio risolvere un problema o aprire una nuova possibilità), e che seguono un percorso innovativo per ottenerlo, rompendo con i modi consueti di pensare e fare le cose»
In sostanza, si tratta di un approccio compatibile con l’idea che: 1. un’innovazione nasca da un atto di ribellione, 2. sia frutto di un percorso di maturazione di idee e azioni pensato e intellettualmente sofisticato, 3. richieda una forma di coordinamento per valorizzare la conversazione e indirizzarla se possibile a uno scopo. Tutta la questione del design in questo caso è dunque come trovare un equilibrio tra il lavoro degli esperti e quello dei partecipanti alla dinamica sociale.
Se è “tutto quello che un progettista esperto può fare”, allora questa attività che non può prescindere dal disegno e dalla programmazione di piattaforme, se con questo concetto si intendono strutture in grado di aiutare il coordinamento per abilitare iniziative socialmente innovative, senza pensare di determinarle ma di certo usando ogni conoscenza per indirizzarle consapevolmente e trasparentemente verso lo scopo. In effetti, ogni piattaforma di successo guida il comportamento sociale attraverso la sua interfaccia e la sua metafora. Usare una piattaforma pensata per abilitare l’incontro di persone che si piacciono non è necessariamente giusta per abilitare una conversazione civica che richiede la partecipazione civica di persone che non necessariamente si piacciono ma che sono accomunate dalla relazione con il cambiamento sociale sul quale si sta concentrando l’attenzione. I media civici, in questo senso, sono piattaforme da disegnare con in mente questa consapevolezza. E poiché lo sviluppo di nuove piattaforme è strategico per l’Europa e per una cultura che non si accontenti di ciò che sono state in grado di realizzare le piattaforme di maggiore successo nel mondo digitale attuale, tutto questo si configura come un percorso ambizioso e profondamente importante. L’architettura “all’americana” non può bastare a tutto anche se insegna a tutti molte cose. Compresa quella fondamentale: sulla rete, fino a che è neutrale, la storia non è mai conclusa, il successo non è mai definitivo, lo spazio del possibile è grande quanto l’immaginazione pragmatica e culturalmente motivata. Un’ecologia dei media, in questo senso, è una disciplina decisiva per guardare avanti.
Manzini ha parlato delle sue idee a Rena, Bologna.
Commenti ricevuti online sulla domanda: come sta cambiando la professione del designer? Sono accenni che spero si sviluppino…
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